Festa della Cattedra di Pietro – Ricordo del Servo di Dio don Luigi Giussani

Il 22 febbraio 2022, Festa della Cattedra di Pietro, il vescovo ha presieduto l’Eucaristia in Cattedrale, in occasione del diciassettesimo anniversario della morte del Servo di Dio, don Luigi Giussani, a cento anni dalla sua nascita (15 ottobre 1922), nel quarantesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Riportiamo di seguito l’omelia.

La confessione di fede di Pietro va letta certamente, prima di tutto, nella linea di un titolo (anzi due, e cioè «Cristo» e «Figlio di Dio») che «qualificano» Gesù, e permettono di rispondere alla domanda che il Signore ha rivolto ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (cf. Mt 16,15 s.).
Ma non è sbagliato, credo, muoversi anche nella direzione opposta; e intendere, cioè, la risposta di Pietro sottolineando il fatto che proprio Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. Come se Pietro dicesse, cioè: «Tu, proprio tu, sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
Il seguito del vangelo ci orienta in questa direzione: perché, come sappiamo, subito dopo che Gesù ha riconosciuto che la risposta di Pietro è quella giusta – e lo è perché non deriva da «carne e sangue», cioè dalla debolezza umana, ma da un’ispirazione dall’alto, dal Padre – e ha proclamato che la fede di Pietro è la salda roccia sulla quale si edifica per sempre la comunità dei discepoli, la Chiesa di Dio, subito dopo tutto questo Gesù annuncia per la prima volta la sua passione, ma Pietro ritiene la cosa inaccettabile, e si vede qualificato addirittura come «satana», come colui che si mette di mezzo, per impedire a Gesù di compiere il suo cammino di dedizione al Padre e di dono di sé per la salvezza del mondo (cf. Mt 16,21-23).
È chiaro che Pietro, con gli altri discepoli, dovrà fare ancora un lungo cammino, per arrivare a comprendere e far sua, nella fede, la sua stessa confessione di fede; e questo cammino non potrà farlo se non continuando a tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2), accettando che sia Gesù a «decostruire» le idee che lui e gli altri si erano fatti intorno al Messia, e più in generale intorno al modo sorprendente nel quale Dio voleva condurre a salvezza l’uomo e il mondo.
L’abitudine del linguaggio, anche del linguaggio della fede, è insieme una grazia e un possibile tranello. Grazia, perché ci sono date, così, le parole con le quali possiamo esprimere la nostra fede, approfondirla, comunicarla, condividerla con altri…
Ma tranello possibile, prima di tutto perché – lo sappiamo bene – le parole corrono il rischio di essere vuote, pura proclamazione esteriore. Non a caso, Gesù stesso aveva avvertito: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
Ma c’è anche il rischio che le parole, logorate dall’uso, dalla ripetizione, qualche volta forse dalla superficialità, dall’abitudine, anche se sono quelle «giuste», diventino troppo «nostre», troppo consuete, troppo segnate dalle nostre attese – anche legittime, certo, ma sempre troppo «nostre».
Che Gesù sia per noi il salvatore, il Messia, il Figlio di Dio, l’amico, il maestro, lo sposo, il Signore, il redentore… va tutto bene, e ciascuno di questi e altri titoli coglie qualcosa della ricchezza insondabile della sua Persona e del suo dono di amore. Ma se non vogliamo correre il rischio in cui è incappato Pietro, di aver dato la risposta «giusta», senza però veramente consentire alla verità di quella risposta, l’unica via è sempre quella di tornare a lui, a Gesù di Nazaret, e lasciare che sia lui a interpretare nel modo giusto le parole che gli diciamo o con le quali parliamo di lui.
In questa linea mi sembra di dover leggere l’insistenza del servo di Dio, don Luigi Giussani, che ricordiamo oggi a cento anni dalla nascita e nel diciassettesimo anniversario della morte, sull’«avvenimento» di Gesù Cristo e sull’incontro con lui, come chiave decisiva della nostra vocazione cristiana.
Perché possiamo avere in mente tutti i titoli, tutte le qualifiche più «giuste», per dire «chi è Gesù»: ma servono a poco, o sono soltanto un primo passo, che poi chiede che ci lasciamo sempre sorprendere da lui, che scompiglia le nostre attese e ci chiede di rimettere in questione le nostre definizioni, per quanto utili e significative, che non possono però rimpiazzare l’adesione personale a lui.
A seguire tutta la trafila della vicenda di Pietro quale ci è presentata nei testi del Nuovo Testamento, ci rendiamo conto che continuamente ha dovuto accettare di lasciarsi mettere in discussione dal Signore.  La sua fede in Cristo è la roccia sulla quale si appoggia la stabilità della Chiesa; ma è come la roccia che, secondo la tradizione rabbinica, accompagnava Israele nel deserto: una roccia in movimento, non statica, perché appunto quella roccia – lo dirà Paolo – era Cristo (cf. 1Cor 10,4).
E Cristo mette in questione Pietro, quando si illude di riuscire a dare la sua vita per lui (cf. Mt 26,31-35 e par. Gv 13,36-38); mette in questione Pietro, quando pensa di risolvere con la violenza il dramma del Getsemani (cf. Gv 18,10-11); mette in questione Pietro, quando la paura di fronte all’accusa di una giovane serva del sommo sacerdote lo conduce a rinnegare tre volte il Maestro (cf. Mc 14,66-72 e par.); mette in questione Pietro, che fatica a credere che il Signore è risorto (cf. Lc 24,11-12.24); e quando, anche dopo l’irruzione dello Spirito, ancora non riesce a capire che l’annuncio del Vangelo deve rivolgersi anche ai «pagani» (cf. At 10); o quando non sa risolversi a uscire dal suo giudaismo tradizionalista (cf. Gal 2,11-14). Secondo la leggenda del Quo vadis?, per l’ultima volta Gesù mette in questione Pietro, quando è tentato di fuggire il martirio…
Per ciascun credente, per una comunità, un movimento, per la Chiesa tutta… la sfida è sempre questa: lasciarsi mettere in questione, non dall’una o dall’altra tendenza umana, non da «carne e sangue» (cf. Mt 16,17), ma da Gesù Cristo, il cui Spirito scalza ogni nostro tentativo di fossilizzarci, di sapere già, da noi stessi, «chi sia» Gesù, e in che modo possiamo vivere l’amicizia con lui e la testimonianza del nostro discepolato.
Ci aiutano, certo, i modelli che abbiamo davanti, le persone che lo stesso Spirito suscita nel tempo, per favorire l’incontro vivente con il Signore: e noi, questa sera, rendiamo grazie per il carisma che ha suscitato in don Luigi Giussani, e gli chiediamo di custodirlo non, però, come deposito inerte e sotterrato, ma come talento da trafficare, perché sempre si rinnovi l’incontro vivo con Gesù Cristo e i cuori si aprano alla vita eterna che, in lui, Dio ci chiama a vivere.