due aprile: il terzo anniversario dell’ingresso del vescovo daniele nella nostra chiesa di crema

Ricorre oggi, 2 aprile, il terzo anniversario dell’inizio del ministero episcopale del vescovo Daniele nella nostra chiesa di Crema. In questo tempo così difficile lo vogliamo ricordare come comunità diocesana con affetto e riconoscenza  nella nostra preghiera vivendo spiritualmente la vicinanza a lui che ci è pastore. Nel ricordo di quell’evento riproponiamo il testo dell’omelia che il nostro Vescovo ebbe a pronunciare in quella domenica di tre anni fa nella nostra Cattedrale

IL VESCOVO DEVE OFFRIRE AMICIZIA A TUTTI, VICINI E LONTANI

Considero una grazia che le tappe più decisive del mio inizio di ministero episcopale siano state accompagnate dai grandi testi giovannei della Quaresima: l’incontro di Gesù con la donna di Samaria, per la mia ordinazione; la guarigione del cieco nato, domenica scorsa, quando ho salutato le mie parrocchie; oggi, infine, giorno di inizio del mio ministero qui a Crema, ci è dato di contemplare Gesù che richiama alla vita l’amico Lazzaro. Quando, mesi fa, ho pensato di scegliere come motto per il mio episcopato alcune parole tratte dalla prima conclusione del vangelo di Giovanni – dove l’evangelista spiega di aver scritto il suo Vangelo «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31) – non avevo ancora considerato il succedersi di queste letture, ciascuna delle quali illustra magnificamente ciò che il quarto evangelista si è proposto di fare.

Indubbiamente, però, il vangelo oggi ascoltato rappresenta il culmine: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (vv. 25-26), domanda Gesù a Marta; e nella professione di fede della sorella di Lazzaro – «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (v. 27) – ritroviamo l’invito fatto anche a noi, l’invito a credere nel Signore Gesù, per avere in lui la vita di Dio, quella vita che ci raggiunge nello Spirito del Cristo morto e risorto (cf. Rm 8,9-11).

In Marta, in Maria, in Lazzaro, ci riconosciamo dunque come Chiesa: come fratelli e sorelle che confessano la fede nell’unico Signore, Gesù Cristo; che sanno di vivere di quella vita che Egli ci dona, ricevendola dal Padre; e che si lasciano rinnovare dallo Spirito, per vivere non più secondo la carne, ma trasfigurati per una vita nuova, e per essere nel mondo evangelizzatori, testimoni di un Dio la cui passione è la vita in pienezza, e per tutti. Ciò che l’evangelista ha fatto attraverso il suo vangelo – raccontare i «segni» compiuti da Gesù, per condurre alla fede in lui e, in virtù di questa fede, alla vita «eterna», la vita di Dio – è, mi sembra, ciò che siamo chiamati a fare come Chiesa locale, come Chiesa di Dio vivente in questo territorio cremasco: diventare anche noi, tutti noi – Chiesa diocesana, parrocchie, associazioni e movimenti, presbiteri, consacrati, laici… – «segni» del Cristo, «segni» della vita offerta da Dio all’uomo, segni di speranza e di salvezza, anche e soprattutto per quanti sono smarriti e confusi, per quanti giacciono «nelle tenebre e nell’ombra della morte» (cf. Lc 1,79).

Per fare questo, il vangelo di questa domenica ci offre un’altra indicazione particolarmente preziosa. In questa pagina straordinaria, nella quale un uomo osa dire di sé «Io sono la risurrezione e la vita», ci viene anche detto che quest’uomo «amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5), nutriva nei loro confronti una profonda amicizia, manifestata anche dalle lacrime di Gesù (v. 35) e sottolineata da chi osserverà: «Vedi quanto gli era amico!» (v. 36).

Del resto, solo nel contesto di questa profonda amicizia Marta e Maria possono permettersi addirittura di rimproverare delicatamente il Maestro, rimasto lontano nell’ora della malattia e della morte del fratello: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21; cf. v. 32). Gesù è certo il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo: Marta lo riconosce senza esitare; ma arriva a questa fede, possiamo pensare, avendo fatto l’esperienza umanissima dell’amicizia con Gesù, della familiarità con la quale il Maestro frequentava la casa di Betania.

Mi piacerebbe che questo potesse diventare un itinerario praticato anche nella nostra Chiesa. Che potessimo, cioè, invitare tutti alla fede in Cristo offrendo e testimoniando il volto di una Chiesa amica, di una Chiesa ospitale; di una Chiesa che non esita a proclamare, con Marta, la propria fede nel Signore Gesù, ma che sa anche accogliere i dubbi e le paure, che sa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce; una Chiesa che abbia la fisionomia della casa di Betania, dove la fraternità vissuta diventa abitazione per il Signore Gesù, ma dove anche altri vengono per trovare e offrire conforto, per condividere, forse anche per criticare, come fanno alcuni tra i presenti al sepolcro di Lazzaro… Poco importa, se anzitutto noi, che ci diciamo credenti e discepoli di Gesù, rendiamo possibile l’incontro con Lui nelle dimensioni quotidiane dell’esistenza, convinti che se siamo amici suoi non è per nostro merito, ma per suo dono, e sapendo che questa amicizia è offerta anche ad altri ma, appunto, attraverso la nostra disponibilità all’amicizia e all’incontro.

Da parte mia, vorrei vivere così il ministero episcopale che mi è stato affidato. C’è una frase di S. Agostino che mi colpisce molto: il santo dice che quando fu chiamato all’episcopato, si rese conto che il vescovo «deve mostrare una grande umanità nei confronti di tutti coloro che vanno a trovarlo o sono di passaggio; e se non facesse così, sarebbe considerato disumano» (S. Agostino, Serm. 355, 2). Sapendo quanto era importante per S. Agostino l’amicizia, penso che si possa riscrivere la sua frase in questo modo: il vescovo deve offrire amicizia a tutti, vicini e lontani; e se non lo facesse, disonorerebbe non solo il suo ministero, ma quella stessa umanità sulla quale la grazia del ministero si innesta.

Mi piacerebbe dunque poter testimoniare a voi e a tutti quell’amicizia che il Signore Gesù ha donato a Marta, Maria e Lazzaro: per gioire con voi, per piangere con voi, per godere delle cose belle, e per lasciarmi anche raggiungere dai vostri rimproveri, e non solo dai molti elogi immeritati che mi sono arrivati nei mesi scorsi. Spero che potrà essere così, almeno un po’, per grazia di Dio e con l’aiuto delle vostre preghiere: in modo da essere davvero, in mezzo a voi, un segno vivente del Cristo, collaborando a far sì che la fede in Lui spalanchi i nostri sepolcri (cf. Ez 37,12) e ci faccia gustare la pienezza della vita.

Mons. Daniele GIANOTTI