Dedicazione del nuovo altare della chiesa parrocchiale di Scannabue

Domenica 29 agosto 2021, in occasione della festa patronale del martirio di San Giovanni Battista, il vescovo Daniele ha presieduto a Scannabue la solenne Eucaristia, nel corso della quale ha celebrato il rito della dedicazione del nuovo altare. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

 

Fin dall’inizio della storia cristiana, come abbiamo sentito nella seconda lettura, i discepoli di Gesù «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42).
Un’espressione, in particolare, va sottolineata: erano perseveranti «nello spezzare il pane»: questo gesto indica tutto ciò che noi chiamiamo oggi «la Messa», la celebrazione dell’Eucaristia, probabilmente perché agli inizi del cristianesimo, quando si celebrava la Messa, il rito cominciava proprio con il gesto di «spezzare il pane», per poterlo poi distribuire a tutti coloro che partecipavano.
Questo gesto, ci dice ancora il racconto degli Atti, avveniva nelle case: «spezzavano il pane nelle case» (cf. v. 46). I primi cristiani non avevano ancora le chiese; erano ebrei, e già conoscevano dei riti – come la festa della Pasqua – che si celebravano in casa: non nel tempio, né nella sinagoga, ma in casa. Hanno continuato a fare così: probabilmente, qualche cristiano che aveva una casa un po’ più grande la metteva a disposizione della comunità, che si riuniva per celebrare la «frazione del pane», cioè appunto quella che poi si chiamerà la Messa; e, naturalmente, il vassoio con il pane e il calice con il vino venivano posti su un tavolo.
Ma celebrando la «frazione del pane», i cristiani ripetevano il racconto dell’ultima Cena, come ricorda Paolo nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,24-26), e come facciamo ancora noi oggi, ripetendo i gesti («prese il pane… prese il calice… rese grazie… spezzò il pane… lo diede ai suoi discepoli…) e le parole di Gesù: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo… prendete, bevete, questo è il calice del mio sangue…».
Ricordando queste parole, ripetendo i gesti del Signore, i cristiani capivano che quel pane non era solo pane, ma era il Corpo stesso di Gesù, quel Corpo – che vuol poi dire tutta la vita, tutta la realtà della persona – che Gesù aveva donato sulla croce; quel vino era il suo Sangue versato, cioè la sua stessa morte, accettata a nostro favore, per la nostra vita e salvezza…
Ma, allora, ciò che avviene su quel tavolo, dove ci sono il pane e il vino, ci rimanda a qualcosa d’altro: ci rimanda alla Croce del Signore, al suo dono di amore. Quel tavolo ci ricorda il dono che Gesù ha fatto di sé; quel tavolo, sul quale celebriamo la «frazione del pane», è il nostro altare, arrivano a dire le prime generazioni cristiane.
Il «nostro» altare, perché gli ebrei, ma anche i greci, o i romani, in mezzo ai quali si diffonde il cristianesimo, avevano degli altari: dei blocchi di pietra, qualche volta delle tavole di metallo, sui quali si uccidevano gli animali che venivano offerti in sacrificio agli dei.
Bene, dicono i cristiani: di tutte queste cose non c’è più bisogno; il dono di amore che Gesù ha fatto di sé è la cosa che più conta, davanti a Dio. Non c’è più bisogno di templi e di animali uccisi e di altari: il nostro altare è la tavola sulla quale celebriamo la «frazione del pane», l’Eucaristia, nella quale Gesù ancora si fa presente come Corpo donato e Sangue versato; addirittura, il nostro altare è Cristo stesso, è il suo dono di amore pasquale!
Si capisce, allora, perché a un certo punto i cristiani hanno detto: sì, noi possiamo celebrare la «frazione del pane», la Messa, dappertutto: però forse è meglio se riserviamo un tavolo solo per questo, e non ci facciamo altro: proprio perché ciò che facciamo lì – la celebrazione della Messa – è importantissimo, è il centro della nostra fede; e allora riserviamo un tavolo solo per quello, e magari facciamolo anche bello, facciamolo stabile (quando poi si cominciano a costruire le chiese), magari anche di pietra (per ricordarci che la nostra fede si appoggia sulla roccia, che è Cristo), bello solido, consistente…
E «dedichiamolo» – che vuol dire, anzitutto: riserviamolo solo a questa «cosa» così grande, così importante, che è l’Eucaristia; l’altare è «dedicato» a questo – e pian piano si è arrivati anche a una «celebrazione di dedicazione» (quella che stiamo vivendo oggi), con la quale un altare nuovo viene «messo in funzione»; una celebrazione nella quale i gesti, i testi, le preghiere, ci vogliono aiutare a riconoscere meglio questo segno che è l’altare – che è un segno che ‘rimane’ anche quando non si celebra la Messa; rimane non come semplice tavolo, ma come segno stabile di Cristo, del suo amore dato per noi, di quella Eucaristia alla quale i cristiani sono chiamati a tornare sempre.

Rimane, come «centro» ideale della chiesa, anche per ricordarci un’altra cosa. Il «nostro» altare, l’altare di noi cristiani, è la tavola dell’Eucaristia, dove il pane e vino diventano Corpo e Sangue del Signore; ma il cibo sta su una tavola non per essere guardato, ma per essere mangiato, per diventare nostro nutrimento.
Noi cristiani siamo chiamati a «partecipare» di questo altare; e cioè a nutrirci di Cristo, Pane vivo e vero, Corpo donato e Sangue versato. E se facciamo questo, ci sono almeno due conseguenze importanti, da ricordare. La prima: intorno all’altare, partecipiamo di un solo Pane e di un solo Calice, e dunque siamo chiamati a vivere l’unità, la comunione in Cristo. Poiché vi è un solo Pane e un solo Calice, dice san Paolo, noi, anche se molti, diventiamo un Corpo solo (cf. 1Cor 10,17), il corpo di Cristo, la sua Chiesa. L’altare è segno di unità, di comunione; è un invito a superare le divisioni, le discordie, a riconoscerci tutti fratelli e sorelle, riuniti attorno all’altare, cioè intorno a Cristo.
La seconda: se all’altare ti nutri di Cristo, Pane vivo e vero, è per diventare capace di fare anche tu, nella tua vita e secondo le tue possibilità, quello che ha fatto Cristo.
Riuniti intorno all’altare, ricordiamo e celebriamo l’amore del Signore, che ha dato la sua vita per noi. E la conseguenza è semplice, ma radicale: se «Cristo ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16); o, per dirla con le parole di Gesù stesso: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12).
L’altare, dove noi celebriamo l’Eucaristia, è il segno stabile, permanente dell’amore del Signore per noi: un segno che ci parla, chiedendoci di rispondere, con l’aiuto di Dio, all’amore di Gesù, vivendo anche noi il comandamento dell’amore.
Vivere nell’amore, come vivere nella verità e nella giustizia, è senz’altro impegnativo: ce lo ricorda proprio oggi il martirio di san Giovanni Battista, vostro patrono. Ce lo ricordano gli altri martiri e santi, le cui reliquie – come si faceva già nell’antichità – sono state messe dentro l’altare; tra di esse, c’è anche una reliquia del «nostro» beato martire, p. Alfredo Cremonesi (sicché questo altare è l’unico, in tutta la Chiesa, che custodisce una reliquia del b. Alfredo).
L’intercessione e l’esempio di san Giovanni Battista, del beato Alfredo, degli altri martiri e santi ci aiutino, perché, partendo da questo altare, dove siamo accolti alla tavola di Gesù, possiamo poi uscire nella nostra vita di ogni giorno come testimoni dell’amore «non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).