2 novembre 2025

Commemorazione dei fedeli defunti

Riportiamo l’omelia tenuta dal vescovo Daniele nella Messa della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, e di ricordo dei Vescovi defunti della diocesi, che ha presieduto in Cattedrale domenica 2 novembre 2025.

 

Nel giorno in cui la Chiesa ricorda tutti i fedeli defunti risuona ancora una volta, per noi, la parola chiave che papa Francesco aveva scelto per il Giubileo che stiamo vivendo: «La speranza non delude». L’abbiamo sentita proclamare nella seconda lettura (cf. Rm 5,5-11), in qualche modo come una sfida, perché nel momento in cui ci poniamo di fronte alla realtà (e insieme al mistero) della morte, la questione di una speranza che «non delude» si fa veramente decisiva.
«Finché c’è vita, c’è speranza», dice un proverbio che, in una forma appena più elaborata, trova spazio anche nella Bibbia:

Certo, finché si resta uniti alla società dei viventi, c’è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, è svanito il loro ricordo. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole (Qo 9,4-6).

Così sentenzia il libro del Qoelet, un libro che ha una visione estremamente realistica, per non dire pessimistica, dell’esistenza, e che non ha il minimo orizzonte di una vita al di là di questa vita terrena. La cosa non ci deve stupire, perché l’attesa di una risurrezione, di una vita eterna, si fa strada solo a un certo punto, nella storia di fede del popolo di Israele; e anche al tempo di Gesù c’erano nel mondo ebraico alcune correnti di pensiero che non credevano a una risurrezione futura e a una vita piena al di là della morte: anche Gesù fu chiamato a confrontarsi con questa visione (cf. Mc 12,18-27 e par.).

«Finché c’è vita, c’è speranza», dice dunque la saggezza popolare, sottintendendo che la speranza non è infinita, non può pretendere di andare al di là di ciò che la vita, questa vita visibile, concreta, porta con sé. Finché c’è vita, c’è speranza: ma la morte dice l’ultima parola anche sulla speranza, e in questo senso anche la speranza è una delusione, o un’illusione.
Paolo osa dar voce alla visione cristiana delle cose, e parla di una speranza che “non delude”: e il paradosso è che a fondamento di questa speranza mette… una morte! Scrivendo ai Corinzi, Paolo si era richiamato direttamente alla risurrezione di Gesù (che alcuni, a Corinto, negavano), e aveva scritto: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15,19).
Nella lettera ai Romani non c’è riferimento esplicito alla risurrezione di Gesù, per lo meno nel passo che abbiamo ascoltato. Se la speranza «non delude» è perché «Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6; e poi lo ripete, «Cristo è morto per noi», mentre noi «eravamo ancora peccatori», cf. v. 8).
Paradossalmente, proprio la morte, quella morte che umanamente chiude la porta alla speranza, nel caso di Cristo è morte che fonda una speranza che «non delude»: perché è in quella morte che si manifesta «l’amore di Dio per noi» (cf. ivi), un amore più forte della morte stessa.
Tutto questo è importante anche perché ci aiuta a capire che la vittoria sulla morte, e l’affidamento a una speranza che «non delude», è qualcosa che possiamo anticipare già in questa vita terrena. Sì, noi aspettiamo la risurrezione e la vita eterna, e la desideriamo per i nostri cari defunti, per i quali oggi preghiamo in un modo particolare. Ma se questa realtà è radicata nell’amore di Dio per noi, manifestato nel fatto che Gesù Cristo ha dato la sua vita per noi (cf. Gal 2,20), allora tutto ciò che ci inserisce in questo amore è già anticipazione di vita eterna, è già pegno di risurrezione.
Non abbiamo bisogno di ricorrere a chi sa quali esperienze estatiche o di chi sa quale viaggio nel futuro. San Giovanni, nella sua prima lettera, ce lo ricorda in modo semplice e chiaro: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14); e, viceversa, «chi rimane nell’amore rimane in Dio» (ivi, 4,16) e nella sua pienezza di vita, e vi rimane per sempre.

Permettetemi di concludere, in questa linea, citando alcune delle parole che papa Leone ha detto oggi, durante la Messa che ha presieduto al Cimitero monumentale del Verano a Roma:

Per amore Dio ci ha creati, nell’amore del Figlio suo ci salva dalla morte, nella gioia dell’amore con Lui e con i nostri cari vuole farci vivere per sempre. Proprio per questo, noi camminiamo verso la méta e la anticipiamo, in un legame invincibile con coloro che ci hanno preceduto, solo quando viviamo nell’amore e pratichiamo l’amore gli uni verso gli altri, in particolare verso i più fragili e i più poveri. Gesù ci invita infatti con queste parole: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).

La carità vince la morte. Nella carità Dio ci radunerà insieme ai nostri cari. E, se camminiamo nella carità, la nostra vita diventa una preghiera che si eleva e ci unisce ai defunti, ci avvicina a loro, nell’attesa di incontrarli nuovamente nella gioia dell’eternità.