Veglia per i missionari martiri – Omelia del vescovo Daniele

Cattedrale di Crema, 24 marzo 2020

Introduzione alla celebrazione

È una bella consuetudine della nostra Chiesa ricordare ogni anno i missionari martiri a Chieve dove, per volontà del mio predecessore, il vescovo Oscar, nella chiesa di san Martino è stato costituito un santuario dedicato alla memoria dei Martiri del nostro tempo – come avete sentito, penso, nel video trasmesso prima del canto di inizio.
Quest’anno, per le ragioni che ormai tutti sappiamo, le cose devono andare in modo diverso. Ho ritenuto però di non rinunciare a questo momento di preghiera, e di farlo qui in Cattedrale, dove è più facile la possibilità di trasmetterlo con i mezzi di comunicazione.
Come ho detto anche una settimana fa, nella veglia di preghiera per p. Gigi Maccalli (per il quale, naturalmente, vogliamo pregare intensamente anche questa sera), la fatiche che stiamo vivendo a causa dell’emergenza sanitaria in atto ci aiutano a sentire meglio fatiche e pene, tribolazione e angustie – ma anche gioie, speranze, gesti di carità e di vita – che tanti cristiani vivono in ogni parte del mondo, per ragioni diverse.
Portiamo davanti al Signore, questa sera, le tribolazioni nostre e loro, in una grande e forte comunione. La testimonianza di chi ha versato il sangue per l’annuncio del Vangelo, come quella del nostro b. Alfredo Cremonesi, è motivo di sostegno e incoraggiamento anche per affrontare con fede, speranza e carità il tempo difficile che stiamo attraversando.
Vorrei quindi, anzitutto, che ascoltassimo l’elenco dei ventinove nostri fratelli e sorelle che, in ogni parte del mondo, sono stati uccisi per la loro fede e la loro adesione al vangelo, nel corso dell’anno 2019.

Omelia

Le stazioni della nostra Via crucis intrecciano, questa sera, alcune storie legate all’emergenza sanitaria e le vicende dei ventinove nostri fratelli e sorelle che, nello scorso anno, sono morti di morte violenta per la loro testimonianza al Vangelo.
Ogni loro storia andrebbe ripresa e meditata. Mi fermo brevemente su due vicende, che mi sembrano complementari, perché riguardano età diverse (un’anziana e un giovane), condizioni cristiane diverse (una suora e un laico), paesi diversi (l’Africa nera e l’America centrale) e percorsi diversi, ma tutti accomunati dall’incontro con Cristo e dalla vita donata per lui.
Ne rileggo i profili come sono stati riassunti in un testo dell’agenzia Fides: 

Suor Ines Nieves Sancho, religiosa spagnola di 77 anni, delle comunità locale delle Figlie di Gesù, è stata barbaramente assassinata nelle prime ore della mattina del 20 maggio 2019, nel villaggio di Nola, presso Berberati, nel sud-ovest della Repubblica Centrafricana, al confine con il Camerun. Suor Ines, nonostante l’età e che fosse rimasta da sola, aveva continuato a prestare servizio a Nola, dove da decenni impartiva alle ragazze lezioni di cucito.
In uno dei saloni dell’edificio che utilizzava per insegnare alle ragazze a cucire e a imparare un mestiere, l’hanno condotta i suoi assassini per ucciderla, dopo averla prelevata dalla sua camera da letto. Papa Francesco nel corso dell’udienza generale del 22 maggio ha così ricordato la missionaria uccisa: «Vorrei ricordare con voi oggi suor Ines, di 77 anni, educatrice delle ragazze povere da decenni, uccisa barbaramente in Centrafrica proprio nel locale dove insegnava a cucire, una donna in più che dà la vita per Gesù nel servizio dei poveri».

Uno studente dell’Università Intercontinentale di Città del Messico, Hugo Leonardo Avendaño Chávez, 29 anni, è stato sequestrato la sera dell’11 giugno 2019, mentre si recava nella parrocchia di Cristo Salvador a cui dedicava molto tempo. Il corpo è stato trovato il giorno dopo nel suo furgone, avvolto in una coperta, nel quartiere di Aculco, nel municipio di Iztapalapa, con segni di tortura, è morto per strangolamento. I parenti lo ricordano come un giovane devoto che voleva dedicare la sua vita a Dio, era felice e pieno di vita, con un futuro radioso. Il suo omicidio è avvenuto in un clima generalizzato di violenza, insicurezza e paura.

Che cosa ci raccontano, queste e le altre storie dei ventinove nostri fratelli e sorelle uccisi per la loro fede nel 2019, e che cosa ci suggeriscono anche in rapporto alla situazione che noi stiamo vivendo, certo molto diversa da quella che li ha condotti alla testimonianza suprema? Mi sembra che possiamo individuare la risposta in una frase molto semplice: dare la vita. Frase semplice, ma dalle molte sfaccettature preziose. Dare la vita è il desiderio, la volontà profonda di Dio per tutta la sua creazione, e per l’uomo creato a sua immagine.
Gloria di Dio è l’uomo vivente: vivente, certo, non soltanto di questa vita terrena, ma vivente dell’amore e della pienezza di vita di Dio stesso. Dio non vuole altro che questo: che l’uomo viva, e viva per sempre. Che cosa significhi il mistero della morte, in questo desiderio di Dio, è domanda grandissima, che non possiamo affrontare qui. Ma non possiamo in nessun modo dubitare del fatto che Dio, il Dio in cui crediamo, sia un Dio che vuole che l’uomo viva: lo vuole al punto che anche il passaggio della morte non può essere altro, per Lui, che passaggio – misterioso, sì ma passaggio alla vita.
Per questo, tutto ciò che sappiamo fare per essere partecipi di questo dono di vita ci unisce a Dio, al suo desiderio: che si tratti di dare la vita al bambino che nasce, di curare l’uomo o la donna ammalati, di essere accanto con amore e competenza a chi si avvicina al tramonto della sua vita… Ma anche che si tratti, in tutto e per tutto, di far crescere il bene, di far fruttificare tutte le capacità che Dio ci ha dato per la vita buona e piena di tutti e di tutto il creato, e di opporsi alle forze di male che invece assediano l’uomo… sempre si partecipa così al desiderio di Dio di dare la vita.
Questo desiderio assume – ce lo ricorda il mistero dell’incarnazione del Signore, che celebriamo domani con la solennità dell’Annunciazione – il volto concreto di Gesù di Nazaret: perché in lui il desiderio di vita piena ed eterna di Dio per noi si è fatto visibile, l’abbiamo toccato con mano.
E l’abbiamo toccato con mano perché Gesù, venuto perché noi avessimo la vita, e l’avessimo in abbondanza (cf. Gv 10, 10), non ha esitato a mettere in gioco la sua stessa vita; non solo è venuto a dare la vita di Dio, ma è venuto a dare la sua vita, perché noi potessimo vivere e non rimanere prede del peccato e della morte.

Quanti uomini e donne, nel corso della storia cristiana, sono rimasti contagiati – sì, usiamo pure questo linguaggio, che oggi corre continuamente sulle nostre labbra – da questo desiderio di dare vita, mettendo in gioco, se necessario, anche la propria vita.
Nei mesi scorsi abbiamo potuto rileggere tutto questo nella vicenda del nostro missionario martire, il b. Alfredo Cremonesi; ma rileggiamo la stessa cosa nei ventinove uccisi lo scorso anno, e rileggiamo la stessa cosa in tante storie che ci arrivano ogni giorno durante l’emergenza sanitaria.
Sì, in Gesù Dio ha fatto abitare nei nostri cuori il suo desiderio di vita piena per noi, ma in lui è capace di contagiare i nostri cuori anche di quest’altro desiderio: fare della nostra vita un dono, spenderla nell’amore.
Questo desiderio spesso si scontra con le forze dell’egoismo, del male, che abita ancora in noi e anche fuori di noi. Gli esempi che abbiamo davanti ci ricordano però che il dono di Dio è più forte di tutto questo. Ci ricordano, semplicemente, il mistero pasquale che ancora una volta ci prepariamo a vivere, quali che siano le condizioni in cui ci troveremo tra meno di tre settimane.
Faremo memoria di colui che ha dato la vita per noi, morendo sulla croce; lo celebreremo come il Vivente, che Dio ha ridestato dai morti; ci lasceremo raggiungere e abitare dal suo Spirito, Spirito di vita e di risurrezione, perché ci apra a questo dono e ci renda capaci, a nostra volta, di dare vita, e di dare anche la nostra vita nell’amore che non ha paura di perdersi, perché non ha paura di donarsi.