Veglia in memoria dei missionari martiri

Nel corso della “24 ore per il Signore”, nella chiesa parrocchiale dei Sabbioni il vescovo Daniele ha presieduto la Veglia dei missionari martiri, a ricordo dei 22 missionari – laici, consacrati, preti… – uccisi nel 2021. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

I monaci trappisti di Tibhirine, che si erano trovati – anche per la posizione geografica del loro monastero – in mezzo tra gli integralisti islamici e l’esercito algerino, durante la terribile guerra civile che devastò l’Algeria intorno alla metà degli anni ’90, avevano fatto la scelta di chiamare gli uni (gli integralisti islamici) i «fratelli della montagna» e gli altri (l’esercito, il cui comportamento era tutt’altro che ineccepibile) i «fratelli della pianura». E fr. Luc, il monaco che era anche medico, e che curava tutta la popolazione all’intorno, aveva curato feriti degli uni e degli altri.
Era il modo che avevano scelto non per rimanere neutrali, non per nascondersi dietro un «né con gli uni, né con gli altri» (tant’è vero che poi furono rapiti e uccisi, nella primavera del 1996… e a tutt’oggi non è ancora chiaro a chi sia dovuta la loro morte; sono stati beatificati come martiri, insieme con altri dodici tra uomini e donne, alla fine del 2018), ma piuttosto per dire che l’atteggiamento del cristiano, quando si tratta delle persone, non può che essere «per» – non può che essere il «dare la vita».
Anche per dei delinquenti, anche per chi compie stragi e massacri? La risposta la troviamo nella Croce del Signore: e nel fatto che la sua vita lui l’ha data appunto anche per chi lo metteva in croce, anche per chi lo percuoteva e lo derideva.
San Paolo lo dice in un passo della lettera ai Romani che dovremmo ricordare più spesso: «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).
Notiamo il crescendo di questo testo: quando eravamo deboli… quando eravamo peccatori… quando eravamo nemici… E, in sintesi: egli è morto per gli empi! Questo è ciò che ha fatto il Signore per noi, andando ben al di là di ciò che suggerisce la stessa immagine del «buon pastore» (o, forse, dovremmo intendere del vero pastore), che abbiamo ascoltato nel vangelo (cf. Gv 10,11-18): perché, sì, un pastore si cura del suo gregge, ma perché è il suo mezzo di sostentamento, perché dalle pecore ricava latte e lana e forse anche carne…
Gli conviene difendere il gregge dai lupi, da chi vuole rubare le pecore… Ma altra cosa è «dare la vita» per le pecore, e per tutte le pecore. Gesù accenna a pecore che «non sono di questo ovile», e probabilmente allude al fatto che il suo dono di salvezza si estende non solo al popolo di Israele, ma anche agli altri popoli, alle «genti» (ai «pagani»)…
Ma forse non sbagliamo troppo se intendiamo questa frase anche nel senso: do la mia vita per quelli che mi seguono, per quelli che, non senza difetti, vogliono essere discepoli; ma do la mia vita anche per gli altri, anche per i lontani, per i malvagi e gli ingiusti… Perché nel dono della mia vita risplende l’amore del Padre, che tutti vuole accogliere nel suo abbraccio.
I martiri, e in particolare i missionari martiri, li troviamo spesso esposti sulle frontiere, sulle linee di frattura dell’umanità. Li troviamo «sbilanciati» soprattutto dalla parte di chi più soffre, dalla parte delle vittime, perché non possono non schierarsi, lì dove ci sono ingiustizie, lì dove il povero è calpestato, dove persone sono aggredite, dove manipolazione e inganno creano soprusi inaccettabili.
E in questo, certo, anche i missionari martiri sono «contro»: contro appunto inganno e menzogna, contro sopruso e oppressione, contro ingiustizia e iniquità… Qui non c’è neutralità che tenga. Ma lo sono al modo del Signore, lo sono per essere sua voce e testimonianza, per ricordare – con le parole e, prima ancora, con i fatti, cioè con il dono della loro stessa vita – che c’è salvezza solo nell’amore senza riserve, solo nella vita che si dona; e per ricordare che è possibile fare dono della propria vita in ogni situazione, persino quando la vita viene tolta, strappata brutalmente.
Lo abbiamo sentito dalle parole del Signore: «Io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso…» (Gv 10,17-18). E viene da dire: ma come, ti mettono le mani addosso, ti imprigionano, ti inchiodano su una croce… e dici che nessuno ti toglie la vita? Il fatto è che la vita «tolta», da sola, non dice molto, se non la violenza di chi la toglie. Il segreto sta nella vita donata, e appunto nel fatto che anche se qualcuno me la toglie, sta a me, alla mia libertà (che Dio sostiene con il suo dono di amore) di farla diventare un dono e costruire così un mondo nuovo, più giusto e vero e fraterno.