Veglia di ringraziamento e di invocazione della pace – 2019 – Omelia

Cattedrale di Crema, 31 dicembre 2019

«Fare la pace» è un’espressione che si usava (e forse si usa ancora…) tra i bambini, dopo qualche litigata: facciamo pace, facciamo la pace… Ma è la stessa, identica espressione che si legge nella settima beatitudine: «Beati quelli che “fanno la pace”, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5, 9).
I bambini, nel loro linguaggio solo apparentemente ingenuo, percepiscono che la questione della pace non è una questione di parole, di teorie, di speculazioni: la pace, se la si vuole, va «fatta», in modo molto concreto; e va fatta anzitutto qui e adesso, incominciando tra di noi che magari per un motivo banale abbiamo incrinato un’amicizia, abbiamo litigato per delle sciocchezze, ci siamo offesi l’un l’altro…
Le tre vie che papa Francesco, nel suo messaggio per la 53ª Giornata di preghiera per la pace, indica come percorsi possibili in un cammino di autentica speranza di pace, e cioè il dialogo, la riconciliazione e la conversione ecologica, si possono avviare benissimo da situazioni banalmente quotidiane, prima di estendersi – com’è pure necessario – nelle direzioni vaste e complesse dei rapporti tra i popoli, delle relazioni economiche, di modi nuovi e diversi di abitare la «casa comune» e di renderla un luogo ospitale per tutti.
In una parte del Messaggio che non abbiamo ascoltato nei testi proposti durante questa Veglia, papa Francesco scrive che “la guerra… comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo. La guerra si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo” (Messaggio, n. 1).
Le parole sono forti, ma dobbiamo riconoscere che descrivono anche ciò che può accadere nella nostra vita di ogni giorni; descrivono passioni e azioni che possono attraversare le relazioni sociali di un paese come il nostro, che pure non è in guerra… Tanto la guerra che la pace, insomma, possono crescere nei solchi della nostra vita quotidiana, possono radicarsi nei pensieri, negli atteggiamenti, nei modi di pensare e di agire che definiscono la nostra esistenza di uomini e donne. Per questo abbiamo bisogno di coltivare ogni giorno, in questi solchi, quello stile di dialogo e di ascolto reciproco, di riconciliazione e di comunione fraterna, di cura attenta e vigile per la «casa comune», che il Papa sollecita nel suo messaggio.
E abbiamo bisogno, beninteso, di coltivare la speranza. Come abbiamo sentito nell’ultimo testo del Messaggio del Papa, letto prima della proclamazione del Vangelo delle Beatitudini, «il cammino della riconciliazione richiede pazienza e fiducia. Non si ottiene la pace se non la si spera» (Messaggio, n. 5).

Il Papa, nei suoi messaggi, guarda all’insieme della Chiesa e del mondo. Ma credo che di questo invito alla speranza abbiamo particolarmente bisogno noi, qui in Italia. Durante la Messa della notte di Natale, ho condiviso la mia impressione di vivere «un momento della storia che mi sembra segnato dalla tristezza, da un certo smarrimento che dà l’impressione di non riuscire a risolvere mai nessun problema della nostra società, e che forse, anzi, andremo sempre peggio». In questo stato di cose, l’anno che si conclude in queste ore ha visto crescere, mi sembra, con lo scoraggiamento, anche la conflittualità, l’incapacità di parlarsi, di unire le forze per affrontare le difficoltà che abbiamo vissuto, dentro il nostro paese, come pure nel contesto più ampio dell’Europa e del mondo di cui siamo parte.
Ho avuto l’impressione che ci siamo lasciati condurre dalla paura, dal rancore, in una chiusura individualistica o di gruppi contrapposti. E la paura, ci ha ricordato il Papa, «è spesso fonte di conflitto» (Messaggio, n. 5).

Non abbiamo bisogno di paura, ma di speranza. Anche le beatitudini, senza usare la parola, ci hanno parlato di speranza. Perché esse proclamano la beatitudine, la felicità che Dio accorda adesso, ma in nome di una promessa futura, alla quale ci si può aprire solo attraverso la speranza nel Dio fedele.
«Beati quelli che fanno la pace»: beati adesso quelli che adesso, oggi, in questo nostro mondo, in questo nostro paese, costruiscono la pace: beati perché sanno che Dio è fedele, è un Dio di parola, che mantiene la sua promessa di gioia, di vita piena, di quella pace perfetta, che Lui solo può dare.
È su di lui, sul Dio fedele, che poggia la nostra speranza. Chiediamo a Dio che sia lui stesso a sostenerla, questa speranza, perché possiamo fare la pace ogni giorno della nostra vita, nel tempo che Dio ci dona.