Veglia di Quaresima 2021 – Omelia del vescovo Daniele

Il 20 febbraio 2021, in Cattedrale, il vescovo Daniele ha presieduto la Veglia di Quaresima preparata dai giovani di Azione Catteolica. Riportiamo di seguito l’omelia.

Mi è sembrata un’idea preziosa, di cui essere grati a chi ha preparato questo momento di preghiera, partire dal tema della fragilità. È un tema particolarmente rilevante per il tempo liturgico che stiamo vivendo – la Quaresima –, ma lo è anche perché questo tempo lo viviamo ancora sotto l’onda della pandemia: un’onda che ci ha travolto proprio a partire da un anno fa: la prima diagnosi di un paziente positivo al Covid-19 è stata fatta, nell’ospedale di Codogno, proprio il 20 febbraio dell’anno scorso.
È passato un anno, dunque, da che siamo entrati consapevolmente (anche se questa consapevolezza ha richiesto un po’ di tempo per essere sviluppata appieno) nella pandemia: un’esperienza che ci ha travolto e, in modo inaspettato e drammatico, e su scala mondiale, ci ha fatto sperimentare cosa vuol dire la fragilità della nostra vita sotto praticamente tutti i suoi aspetti.
Naturalmente, esperienze di fragilità e debolezza – come dice Paolo scrivendo ai Corinzi (cf. 2Cor 12,9-10) – le facciamo tutti, nella nostra vita, in un modo o nell’altro: in modo più personale, nelle relazioni vicendevoli, nella vita delle comunità, delle famiglia, della società, delle istituzioni… L’esperienza della fragilità è parte della nostra esistenza; e dunque, anche se abbiamo vissuto in modo particolarmente drammatico questo anno, non è che possiamo sperare che, esaurita questa vicenda, la fragilità poi sparisca dalla nostra vita. Avremo certamente altre situazioni, altri momenti e condizioni, in cui sperimentarla.
Che fare, dunque, di fronte a questa esperienza? Può esserci la scelta che qualcosa, o anche tutto, vada in frantumi, come abbiamo visto anche con questo vaso che è stato fatto a pezzi all’inizio della nostra veglia: e possiamo lasciare che questi frantumi si disperdano. Questo sarebbe certamente il versante peggiore, nel modo di affrontare la fragilità.
Possiamo pensare, in alternativa, che si possa restaurare ciò che è andato in pezzi: quando, ad esempio, terremoti o cause di altro genere riducono in pezzi edifici, monumenti, realtà di particolare valore, ci si impegna a ricomporre tutto. Così ad esempio nel 1997, quando un terremoto colpì in modo drammatico Assisi e causò danni di grande consistenza agli affreschi della Basilica di san Francesco: si avviò, dopo, un programma molto impegnativo di restauro. Se ho letto bene, furono raccolti e catalogati qualcosa come trecentomila frammenti degli affreschi! E poi ci si mise d’impegno in un pazientissimo lavoro di ricostruzione degli affreschi stessi, andando a riprendere se non tutti, per lo meno una parte consistente dei frammenti, per rimetterli al loro posto.
È un’impresa titanica, ma si può fare: lo potremmo fare anche con questo vaso, e possiamo cercare di farlo anche con la nostra vita.
Però, dal punto di vista cristiano, questo ancora non basta. La promessa che la fede cristiana fa all’esperienza della fragilità non è semplicemente quella di ricostruire ciò che è andato in pezzi. La risposta cristiana all’esperienza della fragilità consiste in ciò verso cui la Quaresima ci sta conducendo: la Pasqua del Signore. E la Pasqua non è semplicemente ristabilimento di ciò che c’era prima, e che si era rovinato a causa del peccato, del male che ha accompagnato la storia dell’umanità. La Pasqua fa questo, certo, grazie al dono di amore del Figlio, che consegna sé stesso al Padre, per la salvezza del mondo; ma fa di più: fa esistere una nuova creazione, chiama all’esistenza una realtà nuova.
E questo è il senso di ciò che anche in questa Quaresima siamo chiamati a vivere: partendo anche dalle nostre fragilità, per consegnarle a Dio, sapendo che Egli non si limita a fare il lavoro del buon restauratore, che rimette insieme i pezzi e ricostruisce ciò che era andato perduto. Dio fa questo ma, al tempo stesso, realizza qualcosa di nuovo.
Tra poco ascolteremo il vangelo della parola di consegna che Gesù, dalla croce, dice al discepolo amato e alla Madre (cf. Gv 19,25-27): potremmo dire che anche per loro, che rappresentano l’umanità rimasta ai piedi della croce, dove tutto sembra perduto, Gesù dice le parole che indicano una nuova nascita, parole che fanno di quell’ora di morte la nascita di un mondo nuovo; e dunque ciò che viene consegnato a lui, da lui viene preso e trasfigurato in realtà nuova.
È per questo che anche rispetto alla pandemia non basta, come pure speriamo e desideriamo e diciamo da tanto tempo, «tornare alla normalità». La sfida, che ci viene proprio dalla fede e dalla visione pasquale della vita e del mondo, alla quale la Quaresima ci vuole ricondurre, è precisamente quella di rinnovare noi stessi, il mondo nel quale viviamo, l’ambiente, la società, la realtà di cui facciamo parte, la stessa Chiesa… non a partire dalle nostre forze, ma a partire dalla promessa del Signore.
Provo a dirlo in questo modo: pensiamo ancora a ciò che è successo ad Assisi col terremoto del 1997 e con il successivo lavoro, pazientissimo e ammirevole (e di cui dobbiamo essere molto riconoscenti), di ricostruzione, restauro e ristabilimento degli affreschi della Basilica di san Francesco. Lo ripeto, dobbiamo essere riconoscenti per questo lavoro di grande pazienza e abilità, che ci permette di contemplare ancora oggi gli affreschi di Giotto o di Cimabue.
Ma ancora più bello sarebbe se sorgessero ancora oggi altri Giotto, altri Cimabue, altri uomini e donne capaci di trasfigurare al tempo stesso la fede, la santità e la bellezza, come hanno fatto questi grandi artisti del XIII e XIV secolo.
Ciò che ci è chiesto, insomma, non è semplicemente di ricostruire ciò che pure c’è stato: sarebbe già molto, senz’altro. Ma ci è chiesto di essere creativi – o meglio, ci è dato di esserlo, proprio a partire dalla Pasqua del Signore. Proprio a partire di lì ci è dato di partecipare della grazia di Dio, che in Cristo morto e risorto fa nuove tutte le cose, perché anche noi possiamo essere artefici di un’umanità nuova e di una creazione nuova: anzitutto, lasciandoci noi per primi trasformare.
Per questo è importante accettare la fragilità come momento di progressiva trasfigurazione della nostra vita.  Perché se il Signore ci chiede – e sempre ci chiederà, in un modo o nell’altro – di passare attraverso l’esperienza della fragilità e anche del fallimento, non è per lasciarci per terra come un mucchio di cocci ormai inservibili, e neppure per restaurare il vaso che c’era prima, ma è perché, attraverso queste esperienze, si formino in noi l’uomo e la donna nuovi, modellati secondo il Cristo morto e risorto. E da donne e uomini nuovi, così rinnovati e trasfigurati in Cristo, potrà nascere anche un mondo nuovo.
Il compito, la vocazione di noi cristiani è questo: lasciarci trasfigurare dal Signore, anche attraverso l’esperienza a volte faticosa, dolorosa, della fragilità e del fallimento, proprio perché così lo Spirito plasma in noi la nuova umanità secondo Cristo, e ciò ci rende artefici del mondo nuovo, che Dio affida anche alle nostre mani.
Questo è anche il senso dell’itinerario quaresimale che abbiamo da poco incominciato, e che ci condurrà alla novità della Pasqua, da dove rinascono l’uomo nuovo e la donna nuova, rinnovati in Cristo morto e risorto per essere artefici della novità che viene da Dio.