Solennità di tutti i Santi – Omelia del vescovo

Pubblichiamo l’omelia tenuta dal vescovo Daniele in Cattedrale in occasione della Solennità di tutti i Santi (1 novembre 2020)

Parlando di «santità», per chi prende in mano anche in modo superficiale la Bibbia, una cosa è chiara: «santo» è un attributo proprio di Dio; Egli è il Santo. Dentro questa parola poi, anche con il passare del tempo – i libri della Bibbia coprono quasi due millenni di storia – si scoprono tante sfaccettature, che sembrano anche opposte: perché santità vuol dire trascendenza, distanza, vuol dire che Dio è «totalmente Altro» rispetto a noi; ma la santità di Dio si manifesta anche nella vicinanza, nel fatto che Egli è un Dio che ha camminato con il suo popolo. La santità di Dio vuol dire opposizione radicale al male, al peccato; ma vuol dire anche perdono, misericordia…
Insomma, la santità è ciò per cui Dio è Dio, nella sua unicità, nella sua grandezza incomparabile; in ciò che lo rende temibile (l’esperienza di trovarsi davanti al «Dio santo» è anche un’esperienza di timore, paura), ma anche «affascinante»; c’è come un desiderio dell’uomo di accostarsi a questa santità, e forse anche di carpirne in qualche modo il segreto – è l’antico sogno umano di «essere come Dio», pensando magari che la santità metta al riparo da ogni fragilità, da ogni insicurezza e, in particolare, da quella che nasce dal sapersi mortali.
Ma la fede cristiana ci ricorda che il desiderio di essere come Dio, anche se non è del tutto sbagliato, è però molto pericoloso: soprattutto perché noi spesso abbiamo un’idea molto distorta di come sia fatto Dio e di che cosa significhi, dunque, «essere come lui». Per questo la fede ci fa scoprire una strada tutta diversa, persino opposta: al nostro desiderio di «essere come Dio», Dio ha risposto scegliendo di essere come noi; all’uomo che cerca la divinità e la santità divina, magari per impadronirsene, Dio risponde cercando la nostra umanità, facendola sua, fino al punto di accettarne i limiti, le sue fragilità, le sue debolezze, persino la sua mortalità. E così, secondo la nostra fede, Dio ha voluto farci vedere che la sua santità si può incarnare: può assumere, cioè, il volto, le parole, i gesti, l’intera vicenda di un uomo, e in particolare di quell’uomo, Gesù Cristo: di quell’uomo che più di una volta, nei vangeli, viene chiamato «il Santo» o «il Santo di Dio» (cf. Gv 6,69; cf. Mc 1,24; At 3,14).
La vicenda di Gesù ci dice che la nostra umanità può accogliere la santità di Dio: non ha bisogno di conquistarla, di farne un oggetto di preda, di rapina, perché Dio stesso la dona. E la nostra festa annuale di tutti i Santi ci ricorda che questo dono non si è limitato a Gesù Cristo, nel quale pure la santità di Dio si è manifestata in modo unico; e neppure si è limitata ad alcuni pochi eletti, se il libro dell’Apocalisse può parlarci, oggi, di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua»; e dice che «tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,9-10).
Potremmo parafrasare quest’ultima frase dicendo anche che «la santità appartiene al nostro Dio… e all’Agnello», cioè a Gesù Cristo morto e risorto: eppure non appartiene a loro in modo esclusivo, come una prerogativa da difendere gelosamente, ma come fonte di un dono che arriva a tutti noi, e ha come effetto quello di trasfigurare la nostra umanità. Trasfigurare non vuol dire sopprimere, limitare o soffocare: vuol dire, invece, portare a compimento, realizzare secondo una pienezza che da soli non sapremmo immaginare.
È vero: qualche volta ci sono, nelle vite dei santi più noti, persino degli «eccessi»; e c’è quello che si chiama «l’eroismo delle virtù», della fede, speranza e carità… Questi «eccessi» ci ricordano, però, ciò che il Signore dice ai discepoli attraverso le beatitudini, ascoltate nel vangelo: e cioè che la «trasfigurazione» della nostra vita secondo la santità di Dio avviene percorrendo sentieri che non sono quelli ritenuti più comodi e appaganti, nel sentire comune. Qualche volta, forse, ci è balenata nella testa l’idea che per onorare la nostra realtà di uomini e donne non basta la «ordinaria amministrazione»; per essere all’altezza di ciò che la condizione umana richiede, non è sufficiente accontentarsi del minimo, anche se può essere più comodo.
La santità che viene dal Dio santo, che ha abbracciato la nostra condizione umana, risponde a questa intuizione: ci propone di onorare la nostra umanità con uno sguardo alto, con una proposta impegnativa di vita, che appunto trasfigura la nostra umanità non per negarla, ma per darle un compimento vero. Se leggiamo i vangeli, credo che ne ricaviamo facilmente questa impressione: che, per essere «il Santo di Dio» (cf. Gv 6,69), Gesù non è meno uomo, anzi! E credo che la stessa impressione la ricaviamo quando ci immergiamo con verità nella vita di un santo o di una santa, magari togliendo gli abbellimenti leggendari che tante volte vi sono stati costruiti sopra: scopriamo, nei santi, donne e uomini veri, profondi, autentici, anche nelle loro eventuali fragilità e debolezze – di cui, peraltro, erano i primi a essere consapevoli.
La festa di oggi, del resto, ci parla di una moltitudine di «sante e santi anonimi», la cui vita santa è sconosciuta agli occhi del mondo, ma ben conosciuta a Dio, che ha visto realizzato in loro ciò che si è compiuto in modo straordinario in Cristo: e cioè l’umanità trasfigurata dalla santità di Dio, l’umanità che risponde con generosità e disponibilità al dono di Dio, e raggiunge così la sua pienezza.
L’intercessione dei santi conceda anche a noi, dunque, di aprire la nostra vita alla santità di Dio, perché essa trasfiguri questa nostra umanità debole e fragile, e la conduca verso la pienezza che solo Dio può dare.