Solennità di San Pantaleone, patrono della diocesi – 2019, Omelia

Cattedrale di Crema, 10 giugno 2019

Al culmine della sua carriera politica, quando ormai il suo regno è pienamente consolidato, il grande re Davide decide di dare una misura al suo successo, e di tradurre in cifre la gloria che Dio ha messo nelle sue mani. Nonostante il parere fortemente contrario dei suoi più stretti collaboratori, Davide stabilisce dunque di indire un censimento della popolazione: da est a ovest, dal nord fino alle regioni più meridionali del suo regno, i suoi funzionari fanno i conti, e il censimento dà un risultato strabiliante: «C’erano in Israele ottocentomila uomini abili in grado di maneggiare la spada; in Giuda cinquecentomila» (2Sam 24, 9).
Nel racconto biblico, che fa da sfondo alla prima lettura che abbiamo ascoltata, sembra che sia proprio questo risultato straordinario, questo indice statistico di un successo completo, a far capire a Davide di aver commesso un’enorme sciocchezza: sciocchezza – un peccato, anzi – che sarà pagata duramente, perché questo suo magnifico popolo sarà colpito violentemente dalla peste, conclusa poi nel modo che abbiamo ascoltato nella lettura biblica.
Il racconto biblico può sembrare semplicistico, «rozzo», addirittura, perché fa risalire tutto immediatamente a Dio: è Dio che suscita in Davide la tentazione di indire il censimento, è Dio che lo punisce colpendo il popolo con la peste, è Dio che si «pente» di questa stessa punizione e ferma l’angelo devastatore… D’altra parte, è chiaro per il racconto che Davide ha veramente commesso una colpa, nel voler fare il censimento. Tutto risale a Dio, per la Bibbia, perché senza di lui nella potrebbe sussistere e accadere; ma è evidente che il racconto non vuole occultare in nessun modo la responsabilità umana.
In che cosa consiste, più precisamente, la colpa di Davide? Di per sé, il censimento, a scopi militari o fiscali, è presente nella Bibbia; tuttavia, è circondato da alcune cautele, perché conduce al sentimento del potere, del calcolo, del dominio. «Su quali forze posso contare?»: questa è la domanda-guida del censimento; che si tratti di forze militari, economiche, di pressione di opinione pubblica, di appoggio elettorale o qualcosa di simile, il desiderio del censimento muove da questo bisogno di «misurare» e poi di dominare le forze disponibili, per assicurarsi il successo e il potere. È ovvio che c’è anche una giusta sapienza, nel saper valutare i mezzi di cui si dispone, in qualsiasi campo; ma il censimento indica piuttosto una volontà di potenza, di autonomia, di controllo totale, affidata alla compattezza implacabile dei numeri – oggi diremmo, forse, affidata alla statistica, ai sondaggi, agli algoritmi…
Ora, tutto questo contraddice la visione che Dio ha dell’identità anche politica del suo popolo e di chi lo governa. Alla domanda: «su quali forze posso contare?», il re biblico dovrebbe rispondere semplicemente: posso contare su Dio – il che potrebbe sembrare ancora più pretenzioso, se non fosse che la Bibbia fa vedere molto bene, in vari episodi, che sarebbe sbagliato prendere Dio come una specie di garanzia automatica, come se tutte le battaglie intraprese in nome di Dio fossero garantite dal successo. Non è così, e la Bibbia lo fa capire molto chiaramente. Si tratta di contare su Dio, ma nel modo della fede, del legame profondo e personale con lui. Altrimenti, si rimane sempre in balia di forze impersonali, che finiscono per essere distruttive.
Il racconto del censimento di Davide, in definitiva, ci mette davanti proprio allo scontro fra due forze impersonali: da una parte quella del puro numero (e che, notiamo, finisce per ridurre a numeri, a cifre da codice fiscale, anche le persone); dall’altra, quella di una malattia misteriosa, micidiale, imprevedibile, come la peste; malattia pressoché impossibile da curare per gli antichi e che, si direbbe, colpisce a caso, ciecamente, senza guardare in faccia nessuno, senza distinguere buoni o cattivi, giusti o ingiusti…
Non a caso, la fine del flagello avviene lì dove si rende possibile l’incontro personale: dove si esce, cioè, dalla logica cieca del numero e si realizza il faccia-a-faccia dell’incontro. L’altare che Davide costruisce «nell’aia di Araunà, il Gebuseo», preannuncia il tempio, che sarà costruito in quello stesso luogo: e il tempio è il luogo dove il fedele va a incontrare Dio, a vivere la relazione personale con lui, invocando il suo Nome santo e manifestando il proprio impegno ad accogliere la sua alleanza.
E il tempio è anche il punto di partenza dell’incontro fraterno, come spesso ricordano i profeti, i quali sanno bene che anche del luogo dell’incontro con Dio si può fare una falsa garanzia. Così, ad esempio, si esprimerà Geremia: «Non confidate in parole menzognere ripetendo: “Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore!”. Se davvero renderete buone la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre» (Ger 7, 4-7).
Dalla peste di ogni tipo – che si tratti della malattia fisica, o di qualsiasi altra pestilenza, materiale o spirituale, che disgrega la nostra umanità – ci si salva solo imparando a prendersi cura gli uni degli altri, a partire dal riconoscimento credente del fatto che Dio si prende cura di noi.
La nostra città, la nostra Chiesa, ha la grazia di avere come protettore, in san Pantaleone, un santo medico: un uomo che ha saputo unire la competenza medica (evidentemente, quella che si poteva avere al suo tempo) alla sua fede radicale in Gesù Cristo, testimoniata fino al martirio, per prendersi cura della vita e della salvezza dei fratelli.
Anche oggi, nella Chiesa e, ritengo, anche nella società civile, abbiamo bisogno di entrare in questa logica del prenderci cura con sapienza e generosità gli uni degli altri. Nella Chiesa bisogna vincere la tentazione del numerare le proprie forze secondo criteri umani, magari per contrapporsi gli uni agli altri, per crescere invece sempre più in uno stile di fede autentica e di fraternità vera e profonda, di condivisione e aiuto reciproco, capace di testimoniare efficacemente la bellezza e la verità del Vangelo di Cristo.
Ma anche nella società civile abbiamo bisogno di tenere a bada i bacilli delle pestilenze moderne: penso, per fare solo qualche esempio, ai rischi dell’individualismo, della spersonalizzazione disumanizzante, al disimpegno educativo, alla ricerca esasperata del proprio interesse individuale o di parte, alla fatica di fare spazio alle nuove generazioni, alle chiusure egoistiche… L’elenco potrebbe continuare, ma non credo che ce ne sia bisogno. Penso che sia meglio ricordare che nella nostra società, in questa nostra terra cremasca e in questa città, abbiamo anche tanti esempi significativi e ricchi di capacità di cura, di attenzione, di vicinanza, di promozione di un’umanità piena e bella.
San Pantaleone ci aiuti a riconoscere e valorizzare questi esempi, a farli crescere, a coltivarli come semi di un’umanità e di una società libere da ogni forma di pestilenza, dove sia possibile la vita buona che Dio sogna per tutti i suoi figli.