Solennità di Cristo Re – Festa del Crocifisso della Cattedrale

Cattedrale di Crema, 24 novembre 2019

Qualche giorno fa, un visitatore evidentemente non di Crema, che aveva partecipato alla Messa in cattedrale, mi ha espresso il suo rammarico per non aver avuto davanti agli occhi un Crocifisso – un Crocifisso, mi diceva, «con cui parlare».
Io gli ho risposto cercando di spiegare perché trovo molto bella la «croce gloriosa» che è sospesa sull’altare, e che raffigura da una parte (dal lato che vede chi sta all’altare e presiede la celebrazione) appunto la scena della crocifissione; dall’altra parte, quella che vedete voi, è raffigurata l’Ultima cena, da cui prende origine la celebrazione di ogni Messa; e così questa croce ci ricorda come il Signore Gesù, nella sua Passione gloriosa, si dona a noi nell’Eucaristia; e ci ricorda che l’Eucaristia è a sua volta il memoriale di questa Passione.
Ho cercato di dire questo al mio interlocutore ma poi, soprattutto, gli ho detto: ma come, non ha visto la cappella del Crocifisso? Come potrebbe mancare un Crocifisso in cattedrale? E anzi, qui a Crema ce n’è uno così significativo e importante per i cremaschi, che gli hanno dedicato una cappella apposita, riccamente adornata e soprattutto molto visitata. Evidentemente, non l’aveva vista: era stato solo nella navata centrale per la celebrazione della Messa, e non si era accorto della cappella del Crocifisso.
Mi ha comunque colpito la motivazione che questo visitatore mi ha dato, per il suo desiderio di vedere un Crocifisso: perché, mi diceva, sento il bisogno di parlargli, e penso che un cristiano dovrebbe parlare col Crocifisso. È una motivazione che mi piace. Lì per lì mi ha fatto venire in mente don Camillo che parla al Crocifisso (e al Cristo che gli risponde), nei racconti di Guareschi e nei film che ne sono stati tratti.
Ma poi ho pensato al vangelo di oggi: perché anche in questo racconto ci sono persone che parlano a un Crocifisso: a un Crocifisso che non è un oggetto, ma una persona, una persona inchiodata a una croce, agonizzante in una morte vergognosa e terribilmente dolorosa. Come si parla, a uno crocifisso così?
Le prime parole che sentiamo sono parole di scherno, di derisione, di presa in giro. E verrebbe da dire: ma lasciatelo in pace. Lo considerate un delinquente, un impostore, un bestemmiatore? Pensate che sia uno pseudo-re, avete voluto mettere sulla sua testa quel cartello con su scritto «Costui è il re dei Giudei» (Lc 23, 38) per prenderlo ancora più in giro, per far vedere a tutti dov’è che va a finire chi presume di proclamarsi re dei Giudei?… Bene: ha avuto la sua punizione, tra poco morirà dopo un’agonia dolorosa… Perché accanirsi ancora contro di lui?
Il cuore dell’uomo sa essere molto crudele: e indubbiamente fa pensare che, secondo l’evangelista, fra coloro che deridono così Gesù, che parlano in questo modo a un uomo crocifisso, ci siano i capi – e si intende i capi religiosi – del popolo; fa pensare che proprio in loro sembri spento ogni senso di pietà o anche solo di pudore. E fa pensare che il loro modo di pensare coincida con quello dei soldati – quei soldati che stavano lì a nome della potenza romana che occupava la terra santa – e di uno dei due malfattori: capi religiosi, soldati, delinquenti… tutti la pensano allo stesso modo, tutti pensano che se uno si proclama re, deve dimostrare di esserlo, e la dimostrazione attesa è che sia in grado di salvarsi, che pensi a proteggere se stesso.
Non passa loro per la testa che ci possa essere un altro modo di essere re. Un modo che è indicato – con parole certo un po’ complesse, e che avrebbero bisogno di una spiegazione un po’ più elaborata – nella seconda lettura. Qui, nella lettera ai Colossesi, il modo di essere re di Cristo è presentato a partire dalla condivisione, dalla solidarietà.
Per due volte Gesù Cristo viene presentato come «primogenito»: primogenito di tutta la creazione, primogenito di coloro che risuscitano dai morti (cf. Col 1, 15.18). E «primogenito» vuol dire: il primo di una serie di fratelli e sorelle, primo ma per aver condiviso il destino degli altri. Primo, e «re», per aver fatto sua la condizione fragile che è la nostra, per averla condivisa fino all’abisso della morte. Primo, e re, non perché se ne è stato in alto, su un trono lontano, ma perché è sceso in basso, è venuto fra noi, che abbiamo tante cose belle e significative, ma sappiamo essere anche malvagi e peccatori.

E ci vuole proprio uno che di queste cose se ne intende, un malfattore diplomato, per così dire, uno che riconosce: «Noi riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni»; siamo dei delinquenti, e paghiamo per il male che abbiamo commesso; ci vuole uno dei malfattori crocifissi con Gesù, per riconoscere, guardando a Lui, che egli «non ha fatto nulla di male» (Lc 23, 41); e per riconoscere che quest’uomo regna non perché vuole salvare se stesso, ma perché vuole salvare noi; e regna su di noi perché noi possiamo regnare con lui, perché possiamo essere anche noi «signori» della nostra vita, e non schiavi delle nostre idee distorte, delle nostre paure o delle nostre crudeltà.
E così si rende possibile anche un altro modo di parlare al crocifisso, che è quello della preghiera e della speranza: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). In fondo, non c’è bisogno di aggiungere molto altro. Certo, possiamo parlare al Crocifisso con altre parole, raccontargli anche in modo più ampio ciò che ci sta a cuore ma, alla fine, tutto si può riassumere in questa preghiera che affida al Signore noi stessi, nel bene come nel male, con la fiducia che tutto il Signore raccoglie, e tutto trasfigura, perché è venuto a salvare non se stesso, ma noi che eravamo perduti.
Ringraziamo Dio per i nostri padri e madri nella fede che hanno voluto nella nostra cattedrale il Crocifisso: e sì, non abbiamo paura o vergogna di parlargli. Egli continua a risponderci con parole di perdono, di speranza e di vita, per renderci partecipi del suo regno che, come diremo tra poco, è «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace».