Solennità di Cristo Re dell’universo – Omelia del vescovo

Omelia del vescovo Daniele per la celebrazione della Solennità di Cristo Re dell’universo (Cattedrale, 22 novembre 2020)

Subito dopo le parole di Gesù che abbiamo adesso ascoltato, l’evangelista Matteo annota: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”» (Mt 26,1).
Ci troviamo, quindi, all’inizio del racconto di passione. L’espressione «terminati… questi discorsi», l’evangelista l’ha già usata (con qualche variante) quattro volte, nel vangelo, per indicare la conclusione dei grandi discorsi di Gesù che, nel vangelo di Matteo, sono come i pilastri che sorreggono tutto l’edificio.
Il vangelo di oggi è la conclusione dell’ultimo di questi discorsi, il quinto: e di fatto l’evangelista nota: «terminati tutti questi discorsi…»: come a dire che così l’insegnamento è completo, e i cinque grandi discorsi di Gesù, che si leggono nel vangelo, sono il compimento, la pienezza dell’antica Legge, della Torah di Israele, che corrisponde ai primi cinque libri della Bibbia.
Ed è significativo, allora, vedere come si chiude questo insegnamento, quali sono le ultime parole che Gesù consegna ai discepoli, prima della sua passione. Sono parole di giudizio, certo: abbiamo sentito descrivere una scena di giudizio, il cosiddetto «giudizio finale», quando il «Figlio dell’uomo – cioè lo stesso Gesù morto e risorto – verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, [e] siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri…» (vv. 31-32). Il giudizio comporta questa separazione, che risuona anche nell’ultima frase: «E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (v. 46).
Vorrei sottolineare il fatto che l’ultima parola in assoluto è questa: vita eterna! Certo, non è detta come una promessa di tranquillità, di esito felice a buon mercato, come un banale «e tutti furono (o, piuttosto, saranno) felici e contenti!». Il giudizio c’è, e vedremo di non dimenticarlo.
Però, intanto, mettiamo l’accento su questa promessa di vita eterna; anche perché si accusa la Chiesa, o magari più precisamente chi, come un vescovo o un prete, sta qui a predicare, di dimenticarla, questa vita eterna, di parlarne poco, di essere troppo terreni, troppo preoccupati dei problemi di questo mondo, e dunque di non annunciare abbastanza le «cose ultime»… Accogliamo certo, dunque, questa promessa di vita eterna, di pienezza di vita in Dio, oltre la morte – l’ultimo nemico che Cristo mette sotto i suoi piedi, come abbiamo sentito nella seconda lettura – che viene offerta ai credenti e anzi a tutti, come proprio il vangelo di oggi ci ricorda.
Sottolineiamo questa promessa e speranza di vita eterna, che del resto la liturgia, e in particolare la celebrazione della Messa ci ricorda in tanti modi: è importante anche nel contesto attuale, dove il perdurare della pandemia sembra indurre in molti pensieri cupi, stanchezza, depressione…
È giusto e doveroso alzare lo sguardo, orientare la speranza verso ciò che è più forte e più grande dei nostri limiti. È indispensabile, per chi vuol essere cristiano, avere questa speranza forte: averla, custodirla, alimentarla e testimoniarla anche agli altri, proprio perché sta al cuore del vangelo. Il cristiano è appunto colui che sa alzare lo sguardo, guardare verso l’«oltre», verso la promessa di Dio e il dono di vita, e di vita eterna, che viene da lui e che risuona nel vangelo di Gesù.

Quando però ci chiediamo in che modo orientarci a questa vita eterna, come incamminarci verso di essa, lo sguardo viene brutalmente riportato in basso, su situazioni molto terrene, a anche molto attuali, e molto concrete. È lo sguardo (e non solo lo sguardo, evidentemente, ma tutto: mani, piedi, cuore, intelligenza, volontà…) chiamato a orientarsi verso chi ha fame, chi ha sete, chi è nudo, malato, straniero, prigioniero…
Il sentiero che conduce alla vita eterna non passa attraverso le nuvole, ma attraverso questa nostra vita terrena complicata, piena di problemi, e soprattutto passa attraverso l’incontro con chi più patisce, viene scartato, dimenticato, trascurato… E potremmo andare avanti ore a mostrare come la pandemia ha fatto venire a galla una lunga serie di problemi, storture, difficoltà che toccano proprio le cose concrete indicate da Gesù: perché ci sono ancora milioni di persone che soffrono di fame, che non hanno accesso all’acqua, che non hanno condizioni dignitose di vita, ci sono malati e anziani trascurati, profughi e migranti che muoiono cercando una vita migliore, prigionieri maltrattati…
Naturalmente, grazie a Dio che sostiene la buona volontà di tanti uomini e donne, non c’è solo questo: ci sono appunto tante e tanti, anche sconosciuti, anche di quelli che alla fine diranno: «Ma davvero, Signore, ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere, o straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito, o malato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Ma quando mai?» (cf. vv. 37-39). «E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (v. 40).
La strada della «vita eterna» è questa. Non chiede di dare l’assalto al cielo, ma di chinarsi umilmente su questa terra, nella quale il Figlio di Dio ha messo la sua dimora, scendendo così in basso da scegliere, come trono di gloria, la croce di un malfattore, e identificandosi con chi sta all’ultimo posto e viene spesso scartato ed emarginato.
Dicevo, all’inizio di questa riflessione, che subito dopo questo discorso, Gesù si avvia alla passione e alla croce. Noi, proprio in questa festa di Cristo Re, veneriamo in modo particolare il Crocifisso della Cattedrale, al quale si orientano tante attese, speranze, dolori e fatiche dei cremaschi. Contemplando il Crocifisso, noi alziamo lo sguardo verso la beata speranza della vita eterna, che ci è dischiusa proprio dal Signore che regna dalla croce; al tempo stesso, abbassiamo lo sguardo sui crocifissi della storia, sui poveri coi quali Gesù si identifica, e a loro tendiamo le nostre mani.
Abbiamo bisogno di questo duplice sguardo, e di queste mani tese in soccorso del povero. Chiediamo al Signore di custodire in noi tutto questo, perché nell’ultimo giorno possiamo sentirci dire da lui: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» (v. 34).