Solennità di Cristo re dell’universo – Festa del Crocifisso

Domenica 21 novembre 2021, nella Solennità di Cristo re dell’universo, in cui si venera anche il Crocifisso della Cattedrale, il vescovo Daniele ha presieduto l’Eucaristia in Cattedrale. Riportiamo di seguito l’omelia.

«Dunque tu sei re?», chiede Pilato a Gesù, dopo che questi ha affermato che il suo regno non è «di questo mondo» (o piuttosto, dovremmo intendere, «da questo mondo»: nel senso che non riceve la sua autorità, la sua consistenza da autorità di questo mondo).
Ma torniamo alla domanda di Pilato: domanda, o piuttosto affermazione? Di per sé, il testo greco del vangelo autorizza entrambe le interpretazioni. Ed è probabile che l’evangelista la voglia presentare proprio come un’affermazione. La cosa è confermata dal fatto che Pilato, in seguito, continua a proclamare che Gesù è re: ad esempio quando, ricordando agli accusatori di Gesù l’usanza di liberare un prigioniero in occasione della Pasqua, chiede loro: «volete… che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?» (cf. Gv 18,39); o quando, poco dopo, presenta Gesù agli accusatori, dicendo loro: «Ecco il vostro re!» (19,14).
Soprattutto, questa cosa si capisce quando Pilato fa preparare il cartello da appendere sulla croce con il motivo della condanna: «Vi era scritto – annota l’evangelista –“Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”» (19,19). L’evangelista dà molta importanza a questo cartello, che era scritto in ebraico (cioè, probabilmente, in aramaico), in latino e in greco, e fu letto da molti (cf. 19,20).
Fu anche motivo di discussione, questo cartello, perché «i capi dei sacerdoti dei Giudei dissero… a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’”. Rispose Pilato: “Quel che ho scritto, ho scritto”» (19,21-22). Come a dire: ho scritto ciò di cui sono convinto, ho scritto persuaso di aver scritto la cosa giusta!
Pilato è dunque convinto che Gesù sia effettivamente «re». E probabilmente ha anche intuito che c’è qualcosa di particolare, di «strano», se vogliamo, nella regalità di Gesù. Eppure, lo condanna a morte, e a quale morte! La morte di croce, che non solo era un supplizio dolorosissimo, ma era anche una condanna vergognosa, ignobile: era la condanna a morte «riservata» agli schiavi ribelli, ai delinquenti comuni…
Pilato condanna Gesù perché pensa che la sua regalità crei un conflitto con il potere imperiale di Roma, di cui lui è il rappresentante presso il popolo ebraico? Può darsi; ma il vangelo ci dice che Pilato era persuaso anche che Gesù fosse innocente, che non avesse compiuto alcun male: lo dice esplicitamente almeno due volte, nel racconto della passione secondo Giovanni (cf. 18,38; 19,6).
Dunque: Pilato è convinto che Gesù sia innocente; è convinto che sia veramente «re»: eppure lo condanna alla morte di croce. Potremmo approfondire a lungo le ragioni di una così plateale ingiustizia: lo ha fatto per paura, per opportunismo politico, perché era un uomo crudele…?

Ma l’evangelista, probabilmente, vuole attirare la nostra attenzione in tutt’altra direzione, una direzione paradossale, che potremmo esprimere così: proprio perché era re, proprio perché era innocente, Gesù è stato inchiodato sulla croce! Pilato, agendo senz’altro ingiustamente quando ha condannato Gesù, ha fatto però la cosa «giusta»: «giusta» se la si guarda con lo sguardo di Dio, con uno sguardo che non è «da questo mondo».
È chiaro, dobbiamo essere molto attenti: Dio non può volere l’ingiustizia, non può volere che ci siano vittime innocenti – e neanche vittime colpevoli, a dirla tutta: Dio vuole la vita e la salvezza, e proprio per questo ci mette davanti il suo Figlio Gesù come vero «re». Un re il cui potere consiste nel donare la vita (cf. Gv 10,17-18)! E donarla proprio a favore di tutti, inclusi i peccatori, gli ingiusti, i malvagi… Per questo, il trono «giusto» di Gesù è proprio la croce: perché è da quel trono che egli mostra fino in fondo il senso della sua regalità che salva in virtù dell’amore che si dona.
Mettere in croce Gesù è un peccato, e un peccato enorme: che responsabilità ne abbiano avuto Pilato, o i capi dei giudei, o Giuda che l’ha tradito, o i soldati che l’hanno crocifisso… tutto questo, però, non sta a noi giudicarlo, lo lasciamo fare a Dio.
A noi spetta riconoscere il paradosso: Gesù è re, Gesù è innocente, e proprio per questo finisce sulla croce; perché egli è venuto a «rendere testimonianza della verità» (18,37); e la verità di cui parla il vangelo di Giovanni è precisamente la proclamazione dell’amore di Dio che salva e libera. Gesù, regnando dalla croce, testimonia fin dove può giungere questo amore: fino alla vita interamente donata, fino a prendere su di sé anche l’ingiustizia, la violenza, la menzogna, per farci vedere fin dove possono arrivare queste cose, ma soprattutto per farci capire che da tutto questo possiamo essere liberati, accogliendo lui e credendo in lui.

E questo richiede a noi una continua purificazione: perché può sempre sorgere in noi la tentazione di pensare che il regno di Gesù si affermi con i criteri di questo mondo.
Come abbiamo sentito, rispondendo a Pilato, Gesù aveva detto: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36).
Ora, i «servitori» di Gesù (cioè i suoi discepoli) hanno effettivamente provato a «combattere» per Gesù: durante l’arresto, nel Getsemani, Pietro aveva tirato fuori una spada e aveva tranciato l’orecchio di uno dei presenti. E si era tirato addosso il rimprovero di Gesù! (cf. Gv 18,10-11).
In quel momento, Pietro, e probabilmente anche gli altri discepoli, ragionavano come se il regno di Gesù fosse «di questo mondo», un regno da difendere secondo i criteri di questo mondo, che sono, se non sempre, molto spesso il conflitto, la violenza, la sopraffazione, la menzogna…
Onestamente, bisogna che guardiamo anche in noi stessi, e ci domandiamo: io, come difendo il mio piccolo o grande regno? I miei interessi, la mia vita, le cose che mi stanno a cuore, certamente anche le persone che mi sono affidate… Il modo paradossale di «regnare» di Gesù, quello che si vede dalla croce, caratterizza anche me, che voglio essere suo discepolo?
La sfida, dobbiamo ammetterlo, è grandissima. Per questo, la cosa migliore da fare è mettersi davanti al Crocifisso – come facciamo spesso anche davanti all’amato Crocifisso della nostra Cattedrale, al quale guardiamo oggi in modo speciale – e, nella contemplazione e nella preghiera, chiedere a lui, al Signore Gesù, che ha fatto della croce il suo trono regale, di cambiare il nostro cuore, di purificarlo, perché impariamo sempre meglio, e seguiamo con coraggio, la strada difficile dell’amore che si dona senza nulla trattenere.