Presentazione del Signore – Giornata della Vita consacrata

Nella festa della Presentazione del Signore al tempio (2 febbraio 2022), nella chiesa di San Benedetto in Crema il vescovo ha presieduto la celebrazione eucaristica con le consacrate e i consacrati della diocesi, nella Giornata a loro dedicata. Riportiamo l’omelia.

Ho già avuto modo di notarlo un’altra volta: ci siamo così abituati a pensare che Simeone fosse un uomo anziano, che lo diamo ormai per scontato – persino il Messale, nel testo introduttivo alla celebrazione (che però può essere modificato) usa l’espressione «i santi vegliardi Simeone e Anna».
Luca non dice nulla, circa l’età di Simeone. Forse si dà per scontato che fosse un anziano per via delle parole del suo cantico: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola…» (v. 29)
Noi associamo queste parole alla morte… ma pensando che Simeone fosse anziano! Insomma, è una specie di cane che si morde la coda: pensiamo che Simeone fosse anziano, perché parla della sua morte; e pensiamo che parli della morte, perché riteniamo che fosse anziano; ma non è detto che Simeone pensi alla sua morte; e, d’altra parte, si può pensare alla morte anche senza essere anziani…
Ora, uno dei significati più comuni del verbo tradotto con «lasciare» è: congedare. Letteralmente dice così: «Ora tu congedi il tuo servo, Signore, secondo la tua parola in pace».
Da un po’ di tempo, in Italia, non c’è più il servizio militare obbligatorio, e questa è forse una ragione per la quale abbiamo dimenticato uno dei significati di questo verbo «congedare»: la fine di un servizio obbligatorio, com’era appunto quello militare: una volta che lo si era assolto, si veniva «congedati». Nel mondo romano antico, pensate, questo avveniva dopo ben venticinque anni di servizio militare! Si poteva ben tirare un lungo sospiro di sollievo, pensando che finalmente l’obbligo nei confronti dello stato era finito, e si poteva sperare di vivere in libertà e pace la propria vita di uomini adulti.
Nel libro di Giobbe leggiamo: «L’uomo non compie forse un duro servizio (militia, nella Bibbia latina: come un servizio militare, appunto!) sulla terra / e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? / Come lo schiavo sospira l’ombra / e come il mercenario aspetta il suo salario, / così a me sono toccati mesi d’illusione / e notti di affanno mi sono state assegnate» (Gb 7,1-3).
Sì, all’uomo che non ha speranza può capitare di vivere tutta la propria vita come una schiavitù interminabile, come un impegno mercenario, di cui non si vede l’ora che finisca, e che però sarà concluso solo con la morte.
Il «servizio di leva», la militia di Simeone, è finita: ma non è la morte, a porre termine a questo servizio; è, invece, colui che egli ha aspettato come la «consolazione di Israele», come «il Messia (Cristo) di Dio»; è il Salvatore, promesso da Dio, e che ora Simeone può toccare con mano, ricevendolo da Maria e accogliendolo nelle sue braccia, che mette fine a questo servizio penoso.
Con un linguaggio simile si esprime anche Anna – lei, sì, avanti negli anni – quando parla del bambino «a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,38): dove questa parola, «redenzione», indica il riscatto pagato per la liberazione di uno schiavo o di un prigioniero.
L’ingresso di Gesù nel tempio è, insomma, una festa di liberazione, è l’annuncio che la schiavitù è finita. Si anticipa qui ciò che poi Gesù proclamerà a Nazaret, nella sinagoga – l’abbiamo sentito due domeniche fa – quando, leggendo Isaia, annuncerà di essere venuto a «proclamare ai prigionieri la liberazione», e ad annunciare l’anno di misericordia del Signore (cf. 4,18 s.).

Il Vangelo, la buona notizia di Gesù, proclama insomma che l’uomo e la donna devono smettere di sentirsi, davanti a Dio, come degli schiavi obbligati a un servizio, come dei mercenari che lavorano per uno stipendio, o sottoposti a lungo servizio militare.
C’è un altro modo di vivere davanti a Dio e in mezzo ai fratelli: ed è il modo che ci viene annunciato e reso possibile proprio da Gesù; ed è un modo testimoniato con speciale luminosità proprio dalla vita consacrata – e la contro-testimonianza peggiore di tutte sarebbe appunto quella di una vita consacrata vissuta come una schiavitù, come un lavoro mercenario!
Il modo giusto di guardare a questa vita ce lo mostra anzitutto il Figlio, Gesù, che viene portato al tempio da Maria e Giuseppe, per esprimere fin dai primi giorni della sua vita la sua piena dedizione al Padre. Nel gesto di questa consegna al tempio, già si preannuncia ciò che Gesù dirà pochi anni dopo, ritrovato in quel medesimo tempio, perché – dirà a Maria, che incomincia a sperimentare la spada che le trafigge l’anima (cf. Lc 2,35) – «devo occuparmi delle cose del Padre mio» (2,49).
Le «cose del Padre», di cui Gesù si occupa, sono la sua volontà di misericordia, pace e salvezza per tutti: per queste «cose» Gesù non ha timore di farsi servo, fino a dare la sua stessa vita.
La consacrazione si mette su questa scia, entra nel medesimo movimento del Figlio, accogliendo la libertà che egli dona, non per fare di questa libertà un pretesto per vivere secondo la logica dell’egoismo (cf. Gal 5,13), ma appunto perché il servizio sia vissuto con cuore libero e lieto, non come un peso che schiaccia ma come risposta a un amore che attira a Sé e offre pienezza di vita.
E ancora, il modo giusto di vivere davanti a Dio e in mezzo ai fratelli, nella vocazione peculiare della vita consacrata è – per riprendere ancora l’immagine che ci è offerta dal vangelo di oggi – quello di chi si reca al tempio, come Simeone, perché «mosso dallo Spirito» (Lc 2,27).
C’è il rischio di «recarsi al tempio» (cioè di vivere la nostra testimonianza e la nostra consacrazione) per abitudine, perché così fanno tutti, perché ci si aspetta questo da noi… Ma una vita consacrata prigioniera dell’abitudine, affidata solo alla ripetizione meccanica di ciò che siamo bene o male abituati a fare, intristita, forse, dalle fatiche e dalle povertà che viviamo, non è una vita appagante né invitante: né per noi, né per altri.
Si tratta, allora, ogni giorno, di «recarsi al tempio» – di rispondere, in definitiva, alla nostra vocazione – «mossi dallo Spirito», come Simeone, e «lodando Dio» a gran voce, come l’ottantaquattrenne Anna. Chissà da dove tirava fuori il fiato!
Ma questo fiato è appunto il soffio dello Spirito, capace di rinnovare ogni cosa, anche ciò che ci sembra più consolidato e immutabile. La nostra vita di consacrate e consacrati dovrebbe essere il luogo dove lo Spirito può soffiare liberamente, riportandoci alla radice della chiamata in virtù della quale abbiamo seguito il Signore, facendoci riscoprire la bellezza del carisma che caratterizza gli Istituti ai quali apparteniamo, aiutandoci a scoprire strade nuove, sostenendo la comunione tra di noi e nella Chiesa tutta e, soprattutto – ce lo ricordavano, domenica scorsa, le parole di Paolo – facendoci sempre riscoprire e percorrere la via «più sublime» di tutte, quella della carità, dono principale dello Spirito, anima di tutta la nostra vita, dai suoi dettagli più minuscoli ai suoi progetti più grandiosi.
Chiamandoci a Sé, il Signore ci ha liberato da vincoli e obblighi che potevano intralciare la corsa della nostra vita in risposta all’amore di Dio. Ci ha «lasciato andare» – o forse, potremmo dire – ci ha resi capaci di andare su una via di gioia, di dono pieno, di speranza sempre rinnovata.
Dio ci conceda di custodire questa capacità e di viverla in pienezza, dandone testimonianza con una vita plasmata su quella del suo Figlio e trasfigurata nel soffio sempre nuovo del suo Spirito.