Ordinazione presbiterale di don Cristofer Vailati – Omelia del vescovo

Sabato 9 ottobre 2021, nella Cattedrale di Crema, il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione dell’Eucaristia, nella quale il diacono Cristofer Vailati, della parrocchia di S.Pietro apostolo in Moscazzano, è stato ordinato prete. Riportiamo qui sotto l’omelia del vescovo.

Saluto all’inizio della celebrazione

Prolungando il saluto liturgico che ci siamo scambiati, do il mio benvenuto a tutti voi, qui riuniti in Cattedrale, a quanti seguono la celebrazione dalla chiesa di San Bernardino, a quanti vi assistono dalle loro case attraverso la diretta streaming e la Radio Antenna5.
Tanti altri, poi, certamente, sono in comunione di fede e di preghiera con noi, e noi con loro.
Saluto tutte le componenti del popolo di Dio qui rappresentate: laici, consacrate e consacrati, diaconi, famiglie, e in modo particolare la famiglia di Cristofer, alla quale voglio esprimere speciale riconoscenza.
Saluto in modo particolare anche quanti rappresentano le parrocchia di origine e di ministero di Cristofer: Moscazzano, Santa Maria della Croce, e ora l’unità pastorale di San Bartolomeo e San Giacomo.
Saluto nel Signore tutti i seminaristi delle cinque diocesi «sorelle»: con la nostra di Crema, quelle di Lodi, Pavia e Vigevano, che confluiscono nel Seminario di Lodi, col suo rettore don Anselmo Morandi; e quelli del Seminario di Cremona. Ringrazio, per il loro servizio formativo, tutti i docenti, e i formatori del Seminario di Crema: don Gabriele Frassi, rettore, e don Alessandro Vagni, che ha concluso con l’anno scolastico passato il suo mandato di direttore spirituale.
A voi, presbiteri della Chiesa di Crema e altri che vi unite alla lode e alla supplica della nostra Chiesa per Cristofer, un saluto particolarmente grato e affettuoso per il ministero che generosamente svolgete al servizio del popolo santo di Dio.
In mezzo a questo popolo, caro Cristofer, il Signore Gesù rinnova per te, questa sera, lo sguardo di predilezione che rivolse un giorno a chi lo interrogava sulla via che conduce alla vita piena ed eterna; e ripete il suo invito: Vieni! Seguimi! Perché tu possa accogliere questo invito, e rispondervi attraverso il ministero presbiterale, ti sosteniamo con la nostra preghiera e ti accompagniamo con la nostra amicizia.

 

Omelia

«Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto» (Eb 4,13).
Incute un certo timore, questa parola della lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura. Ci fa pensare che nulla sfugge allo sguardo di Dio; ci fa pensare a questo «occhio» come a quelle telecamere oggi onnipresenti, a quei meccanismi di sorveglianza ai quali pensiamo di affidare la nostra sicurezza: di modo che, mentre sorvegliamo gli altri, noi stessi siamo continuamente sorvegliati.
È così, e anzi all’ennesima potenza, anche lo sguardo di Dio? Uno sguardo inquisitorio, uno sguardo che diventa insopportabile, come ricorda il lamento di Giobbe: «Che cosa è l’uomo perché tu gli dia tanta importanza / e a lui rivolga la tua attenzione / e lo scruti ogni mattina / e ad ogni istante lo metta alla prova? / Fino a quando da me non toglierai lo sguardo / e non mi lascerai inghiottire la saliva?» (Gb 7,17-19).
Ma quale sia davvero lo sguardo di Dio su di noi, da cristiani non possiamo saperlo, se non riferendoci a Gesù Cristo. E il vangelo ci offre proprio questa sera una lettura di quello sguardo: e ci racconta di Gesù, il quale – dopo il primo scambio di domande e risposte con quel «tale» (un giovane, secondo il racconto parallelo di Matteo: cf. 19,22) – «fissò lo sguardo su di lui, lo amò, e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21).
In tutto il vangelo di Marco (ma anche di Matteo e di Luca), questo è l’unico passo nel quale il verbo amare ha Gesù come soggetto; è l’unico punto nel quale si parla esplicitamente dell’amore di Gesù verso qualcuno.
Gesù guarda quest’uomo, questo giovane, con sguardo d’amore: uno sguardo d’amore gratuito, che viene prima della risposta di quell’uomo e che, possiamo esserne sicuri, non è venuto meno dopo che quel tale ha deciso di non ascoltare la proposta di Gesù, preferendo la tristezza dei suoi beni alla gioia di accogliere la chiamata del Signore.
Solo la consapevolezza di questo sguardo di amore incondizionato, carico di tutto il desiderio di Dio di farci vivere, e vivere in pienezza; solo il rimando a questo sguardo, che si traduce anche in una voce che chiama e in una proposta di vita, può giustificare ciò che questa sera stiamo vivendo: che un nostro fratello, Cristofer, sia avvolto nella benedizione di Dio e, per la potenza del suo santo Spirito, metta l’intera sua vita al servizio del suo popolo santo, attraverso il ministero presbiterale.
Certo, le vie concrete, attraverso le quali uno può sentirsi chiamato a questo compito, possono essere le più diverse; uno può diventare prete, e prete santo – come mi raccontava una volta un amico, riferendosi a un suo antico parroco (si va indietro di un secolo…) – solo perché desiderava avere una bicicletta!
Ma presto o tardi (meglio presto, evidentemente), siamo tutti ricondotti a un esame di coscienza, a guardarci dentro (questo è uno dei significati del verbo tradotto con «fissare lo sguardo») e a chiederci: qual è la mia radice più profonda? Che cosa, davvero, giustifica la mia scelta? O, forse meglio: che cosa mi dà veramente gioia? Che cosa porta via la tristezza e giustifica che io doni la mia vita in questo modo a Dio e ai fratelli, lasciando la mia famiglia, rinunciando a costruirne una mia, scegliendo di camminare insieme con la Chiesa diocesana, con il presbiterio, con le comunità che sarò chiamato a servire e presiedere nel nome del Signore?

Gesù «guarda dentro» il cuore di quell’uomo con sguardo di amore; ma, certo, il suo è anche uno sguardo che chiede e opera la verità. Per questo il suo sguardo si dirige anche agli altri discepoli, i quali forse non avevano misurato fino in fondo il significato della loro scelta; troppo baldanzosi, forse; troppo presuntuosi… Lo sguardo di Gesù si dirige anche su noi, questa sera: lo ricordo a me vescovo, ai confratelli che circondano Cristofer e tra poco, con l’imposizione delle mani, lo assoceranno al presbiterio diocesano; lo ricordo a tutti i consacrati e le consacrate, ma anche a tutti noi battezzati, a tutti noi discepoli di Gesù.
«Guardandoli in faccia» (così traduce la nostra versione, ma è lo stesso verbo dello «sguardo di amore»); guardandoci in faccia, «guardando dentro di loro / dentro di noi (con amore)», Gesù ci offre una parola consolante e però anche impegnativa: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (v. 27).
È una parola consolante: perché ci ricorda che non si diventa preti (o suore, o frati, o missionari, e prima ancora cristiani) perché si è più bravi, più dotati, più capaci di altri; ma solo per la grazia di una chiamata e per una potenza che non sta in noi, ma esclusivamente in Dio. Siamo e restiamo «vasi di creta», portatori fragili di un tesoro che è più grande di noi, e del quale non siamo mai veramente «capaci», se non è Dio a renderci tali (cf. 2Cor 2,16; 3,5; 4,7).
Però, se «tutto è possibile a Dio», allora non abbiamo neppure delle scuse: la nostra debolezza, le nostre stanchezze, i peccati che restano nella nostra vita, gli insuccessi ai quali andiamo incontro, il fatto che oggi essere prete non dà certo prestigio agli occhi del mondo e forse neppure nella Chiesa… Queste, e mille altre difficoltà che potremmo elencare, non possono diventare scuse per cadere nella mediocrità o accontentarci del «minimo sindacale»: la potenza dell’amore di Dio sa fare prodigi, oggi come sempre, ma le vuole fare attraverso la nostra vita, attraverso il nostro ‘sì’ generoso – attraverso il tuo ‘sì’, caro Cristofer, da rinnovare ogni giorno – a quella chiamata: «Vieni! Seguimi!».

Poi, certo, la benevolenza di Dio verso di noi è tale che, con l’impegno della chiamata, ci assicura già in questa vita una ricompensa sovrabbondante: sicché lasciare «casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi» per il Signore Gesù e per il suo Vangelo non significa perdere, ma ricevere in sovrappiù, «cento volte tanto», imparando anche a vivere in modo nuovo quelle stesse relazioni che pure sono importanti per noi, come quelle con la nostra famiglia terrena.
La gioia di un prete è certamente anche quella di essere partecipe delle meraviglie che Dio opera nei cuori e nella vita delle persone, e che incontriamo nel nostro ministero: che si tratti dei bambini, adolescenti e giovani che possiamo incontrare in oratorio, delle famiglie, degli adulti, di quanti partecipano alla vita della comunità cristiana, degli anziani e dei malati, dei poveri, senza mai perdere di vista «quelli di fuori», quelli che, forse a torto, riteniamo i più «lontani»…
Tutti questi, caro Cristofer, dovrai portare nella tua preghiera quotidiana, nella celebrazione dell’Eucaristia, nella tua cura premurosa e attenta specialmente a chi è più debole, a chi meno conta, secondo la logica umana: sono questi il centuplo promesso e accordato dal Signore, insieme con la tua Chiesa diocesana, con il presbiterio del quale, tra poco, farai parte.
Ma l’augurio che più di ogni altro ti vorrei fare è che ogni giorno tu possa sentire su di te lo sguardo del Signore Gesù: non come sguardo che sorveglia e inquisisce, ma come sguardo di amore, che ti conferma nel ‘sì’ che hai detto a Dio e ti fa sperimentare la gioia di mettere i tuoi passi dietro a quelli del suo Figlio, per servire lui, nella sua Chiesa, con tutto il cuore e tutta l’anima e tutte le forze, ed essere così collaboratore della gioia (cf. 2Cor 1,24) dei tuoi fratelli e sorelle nella fede.