OMELIA NELLA MESSA DEI CADUTI DI TUTTE LE GUERRE. CATTEDRALE, 4 NOVEMBRE 2017

Messa per i caduti di tutte le guerre. Cattedrale, 4 novembre 2017
 
Quando l’Innominato dei Promessi Sposi – che, come probabilmente sapete, corrisponde a un personaggio storico di origine cremasca – nel momento drammatico della sua conversione chiede di parlare con il card. Federigo Borromeo, il segretario del cardinale, preoccupato di quel che potrebbe succedere, è piuttosto esitante a introdurlo: e il cardinale, mentre costringe il segretario a far entrare l’Innominato, aggiunge: «San Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo» (c. XXIII).
Il san Carlo di cui si parla era, naturalmente, san Carlo Borromeo, suo cugino e predecessore sulla cattedra di S. Ambrogio, che ricordiamo nella liturgia di oggi. Il card. Federigo, o piuttosto, dobbiamo pensare, il Manzoni, gli attribuisce questo atteggiamento: «sarebbe andato a cercarlo»; è l’atteggiamento che oggi, usando le parole di papa Francesco, qualificheremmo di «Chiesa in uscita»; è l’atteggiamento del «buon pastore», di cui ci ha parlato il vangelo; di quel pastore che non si accontenta di custodire il gregge fedele, ma va in cerca della pecora smarrita; che non si accontenta di quelli che già ci sono, perché sa che Dio la chiama ad accogliere anche altri…
San Carlo, in un momento storico molto difficile, ha incarnato questa figura del «buon pastore» capace di mettersi in uscita, di non stare ad aspettare che l’altro, il lontano, si decida a venire… Su questo atteggiamento, questo «stile» di «Chiesa in uscita», papa Francesco interroga tutta la Chiesa, invita a fare un serio esame di coscienza e ad agire di conseguenza: e sicuramente abbiamo – lo dico anzitutto a me, vescovo – ancora molto da imparare, molta strada da fare.
 
Mi chiedo anche, però, se questo stile riguardi soltanto la Chiesa o non sia, piuttosto, una sfida più ampia, un invito a ripensare globalmente i modi di comportamento che caratterizzano la nostra società.
Quando, come facciamo anche oggi qui, rievochiamo i conflitti drammatici che hanno segnato la vita dei nostri padri e nonni; quando facciamo memoria anche del sacrificio, certamente in molti casi generoso fino all’estremo, di chi ha lottato e combattuto per la libertà, per la patria… persino quando questa memoria cade nel giorno in cui ricordiamo la fine vittoriosa di una guerra, penso che dentro di noi portiamo questa consapevolezza: non possiamo più permettere che si ripetano i massacri di cui furono testimoni, protagoniste e vittime le generazioni passate; non possiamo più permettere le violenze, le devastazioni, le trincee, i bombardamenti…
Poi, magari, non sappiamo come fare, quando queste cose si ripetono ancora, più o meno lontano, più o meno vicino; tante volte abbiamo detto o pensato «mai più la guerra», salvo poi ritrovarci impotenti quando le guerre continuano a insanguinare il volto dell’umanità. Eppure, credo che sia sincero quel «mai più» che ci portiamo dentro. Ma come realizzarlo, in concreto?
 
Qualche anno fa, mi capitò di leggere qualcosa sulla «tregua di Natale», nata quasi spontaneamente, e per opera più dei soldati semplici, che non degli ufficiali, nei giorni che precedettero il Natale del 1914 sul cosiddetto «fronte occidentale», dove la guerra si era impantanata dopo i primi mesi di battaglia.
La storia di quella tregua mi colpì. Da una parte all’altra della «terra di nessuno» che separava le trincee, capitava di sentire i canti di Natale, magari con la stessa melodia, ma cantati in lingue diverse; qualcuno provò a lanciare, anziché delle granate, qualche pacchetto di sigarette, qualche dolce natalizio; e, il giorno di Natale, i soldati si azzardarono a uscire dalle trincee, a incontrarsi nella «terra di nessuno», a scambiarsi qualche parola, insomma a «fraternizzare con il nemico», come si disse che una frase che voleva esprimere una delle cose peggiori che si potessero fare; e che, invece, esprimeva ciò che questi uomini, mentre si celebrava il Natale, sentivano come l’unica cosa giusta da fare: far tacere le armi, provare a uscire gli uni verso gli altri, cercarsi, tentare di conoscersi…
Fu poco più che un sogno, e durò poco; e nei successivi anni di guerra i tentativi di replicare quella tregua furono repressi duramente. Eppure, il sogno racchiuso in quel gesto di uscire dalle trincee e provare ad andare disarmati incontro all’altro, racchiudeva la grande intuizione, la grande sfida che ancora si ripropone per noi.
Quel «mai più» che sentiamo in noi, quando pensiamo all’orrore della guerra, può diventare vero solo se proveremo a metterci «in uscita», se saremo disposti a cercare l’altro, anche l’avversario, per provare a incontrarci al di là dei nostri pregiudizi, delle diversità, dei conflitti con i quali pure dobbiamo fare i conti.
 
E ci conceda Dio di costruire i luoghi dell’incontro non in una «terra di nessuno» dove nulla potrà crescere, ma a partire dalla terra della nostra vita quotidiana, perché sia sempre più abitata dalla giustizia e dalla pace che il nostro cuore desidera.