Omelia del Vescovo per l’apertura delle 24 Ore con il Signore

Per tre volte, negli ultimi nove versetti del libro di Osea – dai quali è tratta la prima lettura di questa Messa (Osea 14,2-10) – risuona il verbo «tornare»: ritornate al Signore.

Questo invito a «tornare al Signore» è quanto mai opportuno, all’inizio di queste 24 ore per il Signore che, accogliendo l’invito di papa Francesco all’indomani del Giubileo della Misericordia, ci disponiamo a celebrare anche nella nostra Chiesa di Crema.
Il papa – sarà utile ricordarlo – ha proposto alla Chiesa di rinnovare ogni anno questa iniziativa, in prossimità della quarta domenica di Quaresima, come momento particolarmente propizio per restituire al Sacramento della Penitenza un posto centrale nella vita cristiana, anzitutto attraverso la disponibilità di «sacerdoti che mettano la loro vita a servizio del “ministero della riconciliazione” (2 Cor 5,18) in modo tale che, mentre a nessuno sinceramente pentito è impedito di accedere all’amore del Padre che attende il suo ritorno, a tutti è offerta la possibilità di sperimentare la forza liberatrice del perdono» (Misericordia et misera, 11).

Provo a introdurre me e voi in questo spazio di misericordia e di perdono, ripercorrendo brevemente le tre occorrenze del verbo «tornare», che abbiamo ascoltato in Osea: perché non sono tutte uguali, e mi sembra che valga la pena di ascoltarle distintamente.

Ci sono diverse voci, in questi nove versetti. All’inizio, certamente, c’è la voce di Dio: «Così dice il Signore: “Torna, Israele, al Signore tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità”» (v. 2).
Qui, l’invito alla conversione viene direttamente dal Dio, che già in precedenza aveva usato questa espressione, «inciampare», per esprimere il peccato di Israele come peccato generalizzato, da cui nessuno si salva.
Accusando di peccato anche i sacerdoti e i profeti, Dio aveva detto attraverso il profeta: «Ma nessuno accusi, nessuno contesti; contro di te, sacerdote, muovo l’accusa. Tu inciampi di giorno e anche il profeta con te inciampa di notte e farò perire tua madre» (Os 4,4-5).
«Tua madre» qui indica la comunità stessa di Israele, destinata a morire precisamente a causa del peccato generalizzato, che il profeta riassume così: «Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza» (4, 6).

Non si tratta di una conoscenza intellettuale, non è che Israele sappia poco di teologia. Come sappiamo, la Bibbia usa il verbo «conoscere» anche per indicare la relazione intima, profonda, tra lo sposo e la sposa. Israele è come la sposa che non conosce il suo sposo, perché lo ha tradito. Per riprendere le parole di Gesù nel vangelo (Mc 12,28-34), Israele perisce perché non ama il suo Dio e gli preferisce gli idoli.
Per questo Dio dovrebbe punirlo e invece – e questa è la grande bellezza del libro di Osea – l’amore appassionato di Dio per la sua sposa infedele fa sì che Egli continui a chiamarla, continui a cercare l’amore perduto: «Torna, Israele, al Signore tuo Dio…».

Poi il testo passa dal singolare al plurale: «Preparate le parole da dire e tornate al Signore, ditegli: “Togli ogni iniquità…”» (Osea 14, 3). Chi parla, qui? È ancora Dio? Forse. Però nei manoscritti della Bibbia non ci sono mai le virgolette aperte e chiuse, come nei nostri libri a stampa, e qualche volta bisogna immaginare quando un personaggio ha finito di parlare e interviene un altro.
E qui io penso che non parli più Dio, ma il popolo, o qualche capo del popolo: forse, appunto, un sacerdote o un profeta, che insegna al popolo le parole da dire nella liturgia del perdono, le parole con le quali confessare i peccati e chiedere misericordia.

Mi fanno pensare, queste parole, al discorsetto che il figlio minore, nella parabola dei due figli, prepara per dirle al padre, quando decide di tornare da lui: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (Lc 15, 18 s.).
È un discorso giusto, preparato con cura, ma ricordate: quando poi il figlio arriva dal padre, questi non glielo lascia neppure finire!
E qualcosa di simile accade qui, con Osea: le parole in «noi» («Assur non ci cavalcherà… non chiameremo più ‘dio’ l’opera delle nostre mani…»: v. 4), questi impegni di conversione, sono interrotti da Dio, che torna a parlare e dice: «Io li guarirò dalle loro infedeltà, io li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro» (v. 5).

I nostri propositi di bene, i nostri impegni, sono importanti: ma tutto è come travolto dal desiderio incontenibile di Dio di perdonare, tutto è travolto dall’amore appassionato di Dio. Se è Dio a dire: «Torna al Signore», è perché lui ci fa tornare, e l’esperienza della conversione dovrebbe essere, più ancora che la soddisfazione per il nostro impegno (che pure ci vuole), la scoperta meravigliata di un perdono sempre immeritato.

E così arriviamo alla terza entrata del verbo «tornare»: che non è più un impegno, né richiesto («torna, Israele»), né proposto («tornate al Signore»), ma una promessa: «Ritorneranno a sedersi alla mia ombra…» (v. 8). È la promessa che nasce dalla sicurezza tranquilla non nostra, ma di Dio, il quale molto meglio di noi conosce la forza irresistibile del suo amore tenace e fedele.

«Tornare al Signore» viene dunque detto, in questa pagina, in tre modi: come comando (o invito), come impegno, come promessa. Sappiamo fin troppo bene quante volte lasciamo cadere i comandi o gli inviti di Dio; sappiamo anche quanto sono fragili i nostri impegni.
Ma sappiamo pure che Dio è fedele alle sue promesse: e se ha promesso di farci tornare a lui e di farci vivere nella sua pace, lo farà. Ma, certo, non lo farà a forza. Ragione di più, dunque, per accogliere con gioia e riconoscenza, in queste 24 ore per il Signore, la rinnovata promessa di Dio di farci entrare nella gioia del suo perdono.