Omelia del Vescovo per la Messa ‘in Cena Domini’ 2018

Cattedrale di Crema, 29 marzo 2018

C’è un particolare che mi colpisce molto, nel racconto dell’ultima Cena di Gesù con i discepoli, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura – racconto che, vale la pena di ricordarlo, è la testimonianza più antica, che noi abbiamo, a proposito di questa Cena e del sacramento dell’Eucaristia, che proprio in questa occasione Gesù ha lasciato ai suoi discepoli e a noi. Paolo sottolinea che Gesù ha compiuto i gesti e le parole che ci ha trasmesso – e che sono poi la base della celebrazione dell’Eucaristia ancora oggi – «nella notte in cui veniva tradito» (1Cor 11, 23). Non si tratta, evidentemente, di una annotazione solo cronologica. È importante sottolineare che l’Eucaristia viene istituita proprio in quella notte.

Gli evangelisti sono concordi nel dire che il tradimento di Giuda – ma anche il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, come pure l’ingiustizia, la violenza e la menzogna che culmineranno nella croce – sono tutte cose ben presenti a Gesù, non sono per niente realtà inaspettate. Gesù sa che il traditore è all’opera, sa che Satana ha cercato i discepoli per esporli alla prova (cf. Lc 22, 31), che questa è l’«ora delle tenebre» (cf. Lc 22, 53).

«Nella notte in cui veniva tradito», che cosa avrebbe potuto fare, il Signore? Avrebbe potuto protestare, ribellarsi, condannare severamente i discepoli, tentare di sottrarsi a questo destino, chiedere al Padre più di dodici legioni di angeli per difenderlo (cf. Mt 26, 53)…

Invece, ciò che Gesù fa è rendere grazie. Riassumo in questa espressione l’insieme dei gesti e delle parole di Gesù che la tradizione cristiana, a cominciare da Paolo, ci ha trasmesso a proposito di quell’ultima sera; e non solo perché è molto bello pensare che anche in quella notte, e soprattutto in quella notte, Gesù «renda grazie» al Padre: ma anche perché, come sappiamo, il verbo che usa l’apostolo è quello da cui viene la parola Eucaristia: e così, dunque, nel «rendimento di grazie» si riassume tutto ciò che Gesù ha consegnato ai discepoli, perché lo ripetessero «in memoria di lui».

Ma «rendere grazie», per Gesù, non è soltanto pronunciare delle parole, e non è neppure soltanto celebrare un rito, per importante che sia. Piuttosto, «rendere grazie» è l’espressione nella quale si riassume tutto il modo in cui Gesù vive la sua vita davanti al Padre e nell’accoglienza piena della missione che il Padre gli ha affidato.
Possiamo anche dire che «rendere grazie» è un altro modo per dire l’esistenza filiale di Gesù, di colui per il quale vivere significa al tempo stesso tutto ricevere e tutto restituire. Gesù è il Figlio, perché in lui tutto è accolto dal Padre: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio» (cf. Mt 11, 27); al tempo stesso, Gesù è il Figlio perché ogni sua parola, gesto, dimensione della sua vita consiste nel riportare tutto al Padre, in filiale dedizione, senza nulla tenere per sé.

Il verbo «rendere», che usiamo nell’espressione «rendere grazie», ha in italiano giustamente questo significato, del «restituire»: possiamo dire che tutta la vita di Gesù, fino al culmine pasquale, è la restituzione di sé al Padre, dal quale ha ricevuto tutto: è un rendere grazie che ricapitola tutta la realtà di Gesù. E poiché il Padre ha affidato a Gesù «i suoi» (cf. Gv 13, 1), i discepoli, e in definitiva l’umanità e il mondo bisognosi di salvezza, in questo movimento di rendimento di grazie egli ci ha presi tutti con sé: distendendo le braccia sulla croce, Gesù abbraccia tutto, tutto, senza lasciare fuori nulla, e in particolare senza lasciar fuori quell’umanità peccatrice di cui egli si è fatto solidale, per ricondurla al Padre.

Partecipare all’Eucaristia significa entrare sempre più in questo movimento, significa fare del «rendimento di grazie», così come Gesù lo ha vissuto, il criterio, la norma della propria vita. Significa riconoscere che davvero tutto, per noi, è dono gratuito e immeritato della benevolenza di Dio; significa riconoscere che questo dono è capace addirittura di vincere il peso del peccato e della morte, per confermarci nell’alleanza fedele e definitiva che Dio ha voluto sancire con noi; e significa anche «rendere grazie» non solo con le parole, non solo con i gesti sacramentali, ma con tutta una vita che lietamente accetta di entrare nel movimento della vita di Gesù: movimento che si riassume nell’amore portato «fino alla pienezza», fino a dare la vita per gli amici (cf. Gv 15, 13) e per i nemici (cf. Rm 5, 6-10), e che si esprimerà concretamente, per noi, nelle mille forme del servizio, della carità fraterna, della condivisione, del dono di noi stessi, che ogni giorno possiamo praticare.

Il «rendimento di grazie» di Gesù, «nella notte in cui veniva tradito», è così, al tempo stesso, principio del suo passaggio da questo mondo al Padre, dell’innalzamento che, dalla Croce, arriva alla gloria del Padre, e dell’abbassamento che lo porta a lavare i piedi ai discepoli. Innalzamento e abbassamento, anzi, sono due aspetti dell’unico rendimento di grazie, nel quale consiste tutta la vita del Figlio prediletto.

Chiediamo anche per noi, questa sera, la grazia di fare di tutta la nostra vita un perenne rendimento di grazie; chiediamo a Dio che la partecipazione all’Eucaristia imprima in noi il modo di sentire di Gesù Cristo, che in ogni cosa rende grazie al Padre, e proprio per questo vive l’amore più grande, la carità compiuta nel dono della propria vita.