Omelia del Vescovo Daniele per la quinta domenica di Quaresima

Il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione della Messa della quinta domenica di Quaresima in Cattedrale, a porte chiuse, per il protrarsi dell’emergenza sanitaria CoViD-19. Al termine della Messa, il Vescovo ha aperto ufficialmente l’ostensione straordinaria del Crocifisso della Cattedrale.

Omelia

Riascoltando il vangelo della risurrezione di Lazzaro e le altre letture di questa quinta domenica di Quaresima, non possono non ricordare che queste sono state le prime pagine della Scrittura che mi è stato dato di ascoltare con voi e di meditare con voi – con voi, intendo, Chiesa di Crema, qui rappresentata soltanto da pochissimi sacerdoti e fedeli, come purtroppo accade fin dall’inizio della Quaresima, ma che sento più che mai presente nella liturgia della Chiesa e nel mio cuore.
Queste erano le letture bibliche del mio ingresso in diocesi, il 2 aprile di tre anni fa. E, naturalmente, non posso non riandare con la memoria a quel giorno festoso, a questa Cattedrale, oggi, dopo più di un mese,  ancora deserta e allora gremita di gente, in una giornata per me di grande trepidazione, ma anche di grande gioia, anche per la benevolenza e l’affetto di cui mi sentivo circondato arrivando tra voi – benevolenza e affetto, mi sia permesso di dire, che continuo più che mai a sentire, immeritatamente, soprattutto in questi tempi così difficili.
Sì, perché viviamo tempo difficili, che nulla lasciava presagire, non dico tre anni fa, ma anche solo qualche mese fa. Qualche volta, in questi tempi, siamo forse tentati di pensare che il Signore non sia più con noi. Di pensare come Marta e Maria, che non hanno paura di rivolgere a Gesù un rimprovero – delicato, affettuoso, ma pur sempre un rimprovero: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (11, 21.32). Sì, o Signore, se tu sei qui, se tu sei il «Dio-con-noi», com’è che sentiamo e viviamo tutta questa fatica, tutta questa tribolazione? Allora tutto questo vuol dire che sei lontano, che ti trattieni lontano, come hai fatto quando hai saputo della malattia di Lazzaro?
È stato proprio strano, il comportamento di Gesù: e noi ce ne rendiamo conto, oggi, con una fitta di dolore insopportabile. Penso ai tanti morti di queste settimane: la maggior parte, come più volte ormai abbiamo detto, morti lontani dai loro cari, privati degli affetti che possono rendere più sopportabile anche l’avviarsi verso l’ultimo viaggio della nostra vita. Gesù, lui, avrebbe potuto raggiungere l’amico Lazzaro gravemente malato; avrebbe potuto addirittura salvarlo, lui che ne aveva guariti altri, o almeno essergli vicino, ed essere vicino alle sorelle, nell’ora della morte. Perché non l’ha fatto? Perché trattenersi ancora qualche giorno lontano, aspettare che Lazzaro morisse e arrivare solo quattro giorni dopo il funerale?

Il vangelo dà una risposta chiara a queste domande: Gesù è in persona la pienezza di vita che Dio vuole offrire all’uomo: e ciò si manifesta certo nella guarigione di un malato, ma si manifesta ancora più chiaramente nel richiamare alla vita uno che è già morto. Così si capisce che la vita che Dio offre all’uomo nel suo Figlio Gesù Cristo è più forte della morte stessa: Lui è la risurrezione e la vita, come la sua parola proclama con autorevolezza, e come Marta riconosce in una solenne professione di fede.
Ma credo che il vangelo di oggi voglia dirci anche altro: e cioè che Gesù è per noi vita e risurrezione anche perché ha voluto lasciarsi attraversare da tutto il dolore che la morte porta con sé. Questo dolore, noi lo misuriamo soprattutto quando siamo colpiti dalla morte di una persona cara, di una persona a cui volevamo veramente bene. La morte di un genitore, di uno sposo, di una sposa, addirittura di un figlio… o appunto quella di un amico, di un’amica a noi carissimi… È lì che noi sperimentiamo il pungiglione della morte, tutta la sua amarezza.
Gesù ha voluto vivere anche questo: ha corso il rischio di legarsi con profonda amicizia con qualcuno («Guarda come lo amava!», dicono di lui quando scoppia in pianto: cf. v. 36), ha voluto piangere la morte di una persona cara, la morte di un amico, per sentire anche il nostro strazio e offrire a questo strazio la consolazione di Dio, la promessa di una vita più forte della morte e di un’amicizia – quella di Dio – che nessuna realtà di questo mondo può incrinare.
Qualche volta, per difenderci, per non soffrire troppo, evitiamo i legami forti, ci teniamo alla superficie. Perché impegnarci in un’amicizia vera e profonda, in una relazione stabile e fedele? Rischiamo di patire troppo, quando poi le cose dovessero andare male, quando l’altro o l’altra si ammala, si avvia addirittura verso la morte… Gesù non ha avuto questa paura: ha accettato il rischio dell’amicizia sincera e profonda, ha accettato di lasciarsi ferire nell’intimo dalla scomparsa di una persona cara. Così ha rivelato il volto di un Dio amico dell’uomo e capace di com-patire con lui.
Ed è proprio di questa com-passione che abbiamo bisogno, specialmente in questi giorni; di sentire che Dio è davvero con noi, amico fedele anche quando ci sembra lontano, sorgente di vita anche in mezzo al dolore e alla morte. E così potremo anche noi com-patire il dolore di tanti e portare i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6, 2).
Ci doni il Signore la fede sincera e profonda di Marta e di Maria: una fede capace anche di interrogare il Signore, di rimproverarlo, se il caso; ma per arrivare a dire: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Gv 11, 27) ed è per noi sorgente della vita piena.