Omelia del vescovo Daniele per la quarta domenica di Quaresima

Il vescovo Daniele ha presieduto la S. Messa della IV domenica di Quaresima in Cattedrale, a Crema, a porte chiuse, per il protrarsi dell’emergenza sanitaria CoViD-19. La celebrazione è stata trasmessa attraverso la diretta streaming e RadioAntenna5.

22 marzo 2020

Il piccolo dialogo che si svolge tra Gesù e i discepoli, all’inizio del racconto che abbiamo appena ascoltato (cf. Gv 9, 1-41), è di straordinaria attualità, per i tempi che stiamo vivendo.
Sulla situazione del cieco nato i discepoli interrogano Gesù per sapere se, a suo giudizio, questa cecità dipenda da una colpa commessa dal cieco stesso (ma commessa quando, se era cieco dalla nascita?) ovvero dai suoi genitori (e in questo caso il figlio pagherebbe, con la cecità, la loro colpa).
È una domanda che circolava al tempo di Gesù, e circola anche adesso. Circola anche a proposito dell’attuale emergenza sanitaria, visto che c’è chi tranquillamente dice che questa calamità è una punizione di Dio per i nostri peccati, per un mondo che si è allontanato sempre più da Lui.
Stupisce che i discepoli non ricordino le parole dei profeti – Geremia ed Ezechiele, in particolare – che avevano già escluso che Dio faccia pagare le colpe dei padri ai figli; stupisce che non ricordino il libro di Giobbe, che è una protesta clamorosa nei confronti di quanti gli dicono: se soffri, è perché hai commesso dei peccati! mentre Giobbe rivendica la sua giustizia (giustizia che, del resto, è confermata da Dio stesso: il che rende la domanda ancora più ardua: perché il giusto soffre?).
E stupisce che ancora oggi, anche tra i cristiani, ci sia chi dimentica la risposta di Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori…» (Gv 9, 3); risposta che ne conferma altre, sempre date da Gesù (cf. Lc 13, 1-5), e che vogliono liberarci dall’immagine di un Dio vendicativo, punitivo, che nulla ha a che fare con il Padre al quale Gesù affida tutto se stesso e dal quale è inviato per rivelare al mondo il suo amore che salva.

Rimane, tuttavia, la domanda enorme: perché la sofferenza, sia quella dei singoli, sia quella che possiamo vivere come popolo, come comunità? Certo, non possiamo affatto escludere che i nostri comportamenti negativi, frutto del male che è in noi, abbiano esiti devastanti. Lo stesso sapere, la stessa tecnologia, che ci permette di assistere i nostri malati, mette a disposizione anche mezzi sofisticati per fare il male. Non dobbiamo certo pensare che il peccato non c’entri niente: ma non perché Dio ci punisca, ma perché noi stessi ci facciamo del male (e lo facciamo ad altri), quando ci lasciamo dominare dal male e compiamo il male.
E però, di nuovo, questo non basta. La risposta di Gesù ai discepoli potrebbe essere anche fraintesa: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (v. 3). Vuol dire che Dio vuole la sofferenza di quest’uomo per «usarla», sia pure come un mezzo per mostrare la sua «opera», che è sempre opera di salvezza?
Di nuovo, non mi sembra questo il senso dalla risposta di Gesù. In un altro passo del vangelo di Giovanni, Gesù dice che il Padre suo è «sempre all’opera» (cf. Gv 5, 17): e la sua opera non può essere altro che portare l’uomo e il mondo verso la pienezza della vita.
Io credo che alla domanda: perché la sofferenza, la tribolazione, le malattie, le calamità naturali… alla fine non possiamo dare una risposta veramente soddisfacente. Ma penso che i credenti possano arrivare a scorgere, in ogni situazione, Dio che è all’opera per aprire all’uomo l’orizzonte della vita, e della vita in pienezza. Che non consiste, semplicemente, nello «star bene», come forse la nostra mentalità attuale rischia di pensare. La «vita piena», la vita «eterna», che Dio offre all’uomo, è la conferma, e insieme anche il «molto di più», di ciò che l’uomo oscuramente presagisce e desidera: che la sua vita abbia un senso, e che non sia destinata a cadere nel nulla.
Che abbia un senso anche se fa esperienza del limite, della fragilità, della malattia e persino della morte; e che appunto, nonostante tutto questo, essa non finisca nel vuoto, ma sia raccolta per sempre in un destino eterno, in una pienezza insuperabile.
Dio accoglie questo desiderio – lui stesso, del resto, l’ha messo nel nostro cuore – e lo fa arrivare ben al di là di ciò che noi possiamo concepire. E qualche volta ci si può immaginare che persino la sofferenza non sia solo male, ma dischiuda il volto di un Dio che non la usa per punire, ma che la condivide e la apre a una pienezza di vita inimmaginabile.

Per fare questo, però, Dio propone all’uomo una via, che si riassume nella frase: andare da Gesù Cristo, o anche credere in lui. Perché è appunto in lui che Dio ha voluto condividere la nostra vita, segnata anche dalla sofferenza e dalla tribolazione, per trasfigurarla in vita eterna. Per questo si tratta di andare da Gesù, di credere in lui. Giovanni lo dice molte volte, e in particolare lo ricorda alla fine del vangelo: un vangelo che ha scritto appunto perché chi legge sia confermato nella fede in Gesù e credendo in lui possa avere pienezza di vita (cf. 20, 30-31).
Questo è anche l’itinerario del cieco che, dall’apertura degli occhi, arriva alla professione di fede. L’apertura degli occhi è una cosa bella e desiderabile; ma non è ancora la pienezza di vita, che Dio offre all’uomo.
E si possono avere gli occhi del corpo ben aperti e funzionanti, ma incapaci di vedere il dono dell’amore di Dio per sé e per gli altri, come accade a tutti quelli che nel vangelo di oggi discutono intorno a Gesù, ma senza arrivare a lui, resi ciechi dalla loro ostinazione. Mentre, per altro verso, ci si può trovare nella sofferenza e nella tribolazione, e però riconoscere che Dio è all’opera anche qui, continuamente, e ci invita alla vita in pienezza – mentre chiede anche a noi di metterci all’opera, perché il suo desiderio di vita piena raggiunga tutto e tutti.

Chiediamo a Dio, dunque, di aprirci gli occhi su quel suo desiderio di vita piena per noi, e anche sul peccato che contrasta con questo desiderio. E ci confermi nella fede in Gesù, secondo l’invito che abbiamo ascoltato al termine della seconda lettura: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14).