Messa per le vittime della pandemia CoViD-19 – Omelia del vescovo Daniele

Al Cimitero maggiore di Crema, martedì 30 giugno 2020, il vescovo Daniele ha presieduto la Messa a suffragio dei defunti della pandemia CoViD-19 della città di Crema e di tutta la diocesi. Durante la Messa sono stati ricordati i nomi degli oltre duecento defunti delle parrocchie cittadine, per i quali non è stata possibile la celebrazione dei funerali. Riportiamo di seguito l’omelia tenuta dal vescovo nel corso della Messa.

Vi sarete accorti, penso, che il vangelo della Messa di questa sera (Mt 8, 23-27) riporta lo stesso episodio sul quale papa Francesco, la sera del 27 marzo scorso, ha tenuto la sua meditazione alla Chiesa e al mondo, davanti a una piazza san Pietro livida di pioggia e completamente deserta. Il Papa, in quella sera memorabile, mentre eravamo nel pieno della pandemia – in Italia contavamo migliaia di contagi e quasi mille morti al giorno – aveva commentato questo stesso episodio, ma nella versione del vangelo di Marco: forse più drammatica, più dura, rispetto a quella di Matteo, che abbiamo ascoltato poco fa.
Però questa sera l’evangelista ci mette sulle tracce di un verbo importante, quando scrive che «salito Gesù sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono» (Mt 8, 23). Seguire Gesù è la condizione normale del discepolo: il discepolo (il cristiano, potremmo dire) è appunto colui che segue Gesù.
L’evangelista ci suggerisce dunque, questa sera, che il discepolo è colui che sempre segue Gesù, anche quando egli si mette in navigazione su una barca fragile, si avventura verso un mare che può diventare, e diventa, in effetti, tempestoso. Potremmo anche dire, con un linguaggio un po’ diverso, che credere in Dio, affidarsi a Lui, vuol dire credere non soltanto nella luce, ma anche (e soprattutto) nell’oscurità; vuol dire credere anche quando il volto di Dio ci appare lontano, misterioso. Anche quando ci sentiamo dire, per bocca di Amos, uno dei grandi profeti di Israele: «Avviene forse nella città una sventura, che non sia causata dal Signore?» (Am 3, 6: cf. prima lettura).
Ascoltare questa parola, alla luce di ciò che abbiamo vissuto nei mesi scorsi, è davvero una prova difficile, per la fede. Perché, se non avviene sventura che non sia causata dal Signore, allora dobbiamo dire questo anche per la pandemia; allora hanno ragione quelli che dicono che ce l’ha mandata Dio, questa pandemia, a punizione dei nostri peccati…
Ancora una volta, come già mi è capitato di dire, quando ascoltiamo la parola della Bibbia, dobbiamo cercare di ascoltare la sinfonia, l’insieme, non la singola nota, che può sembrare stonata. Nella Bibbia assistiamo anche a un cammino di purificazione della fede, che arriva a capire (già ben prima di Cristo) che Dio non manda all’uomo il male: anche se tutto, in definitiva, sta nelle sue mani.
Certo, questo ci chiede di riconoscere, quanto meno, che Dio permette il male; e riconoscere che non siamo capaci di trovare una risposta fino in fondo soddisfacente, alla domanda: perché Dio permette il male? Perché permette le malattie, le pandemie? Perché – anche se sappiamo che la malattia e la morte appartengono a questa nostra esistenza nel mondo – ha permesso che tanti nostri fratelli e sorelle morissero, in poco tempo, per mancanza di fiato, lontani dai propri cari, chiudendo il cammino della loro vita terrena con questa morte, che ci sembra così assurda, insensata?
Non pretendo di trovare una risposta sicura a queste domande. Però, dalle lettura di questa sera, ricavo almeno qualche orientamento, qualcosa che può sostenere la nostra fede e alimentare anche il nostro ricordo e la nostra preghiera per i nostri morti.

Questa frase così difficile del profeta Amos – «Avviene forse nella città una sventura, che non sia causata dal Signore?» – si trova in mezzo ad altre domande simili, che vogliono arrivare a dire questo: «In verità, il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti» (3, 7).
E cioè: sì, è vero: Dio è un Dio misterioso, il suo volto ci appare alle volte incomprensibile, duro, lontano… Ma è, comunque, un Dio che parla, e dunque un Dio che vuole entrare in relazione con l’uomo. E una parola, anche dura, anche severa, come quella che il profeta trasmette al popolo, è meglio del silenzio assoluto. È meglio, per i discepoli che sono sulla barca, sentirsi rimproverare da Gesù («Perché avete paura, gente di poca fede?»: Mt 8, 26), piuttosto che il suo sonno, che lo fa sembrare lontano, disinteressato a noi e ai nostri drammi.
«Se tu non mi parli, io sono come uno che scende negli inferi» (Sal 28, 1), dice un Salmo: e vuole dire che la morte vera, radicale, è proprio questo: è il silenzio di Dio, è la mancanza della parola, perché se non c’è questa parola, non c’è relazione con Dio, c’è solo la morte. E, viceversa, se Dio parla vuol dire che entra in relazione con me: e questa relazione è vita, ed è vita per sempre: colui a cui Dio parla, sia nel rimprovero, sia nella benevolenza, gli parla per sempre. Noi crediamo a un Dio che ha voluto stabilire una relazione con noi. Gesù ci ha fatto conoscere che questa relazione è una relazione di amicizia, di vicinanza, di filiazione.
Non vuol dire che sia una relazione sempre facile: anche tra amici, accade di litigare, di non capirsi… Ma la forza di un’amicizia è quella di ristabilire anche la relazione rotta, di riannodare il filo. Noi crediamo a un Dio che sempre riannoda il filo che ci unisce a lui, e crediamo a un Dio che si è legato a noi con un filo più forte della morte, quel filo che è la forza vitale, eterna, del suo amore fedele.
È per questo che il popolo di Israele, prima, e i discepoli di Gesù, poi, sono arrivati a questa conclusione, riassunta nella domanda piena di stupore che conclude il testo del vangelo di questa sera: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8, 27).
Sì, per il credente tutto sta nelle mani di Dio. E se questo ci rende complicate le cose, se fa nascere in noi domande alle quali non siamo in grado di dare una risposta piena, ci dà però anche conforto e fiducia. Anche per i nostri cari defunti, che ricordiamo questa sera: continueremo a chiederci perché la pandemia se li è portati via, e forse non avremo mai risposte se non quelle, più o meno esatte, ma certamente insufficienti, della medicina e della scienza.
Ma sappiamo, da credenti, dove sono caduti: sono caduti appunto nelle mani di Dio, del Dio che raccoglie tutti e ogni cosa, e tutto ha affidato al suo Figlio Gesù, morto e risorto, perché niente e nessuno di loro sia perduto, ma abbia vita eterna (cf. Gv 6, 37-40).

Dio, in molti casi, ha trovato anche le vie perché i nostri cari potessero concludere il cammino della loro vita terrena non rimanendo soli e isolati, senza possibilità di parola. Ha trovato queste vie soprattutto grazie al senso di professionalità e insieme di umanità di tanti uomini e donne che erano vicini ai malati negli ospedali. Ancora una volta, diciamo qui la nostra riconoscenza per loro: per le cure che hanno prestato ai malati, per aver anche permesso loro di sentire una parola amica, di salutare in videochiamata o al telefono un famigliare; per essersi presi cura anche della dignità dei defunti, in una situazione di emergenza inimmaginabile.
Da Vescovo, ringrazio anche in modo particolare quelli che, con una preghiera, una parola, un gesto, hanno sostenuto anche il cammino di fede dei morenti, quando i Cappellani (che pure ringrazio di cuore) non avevano la possibilità di farlo. E permettetemi di ripetere una parola di ringraziamento al personale dei cimiteri e a quello delle Agenzie di onoranze funebri, per il lavoro che hanno svolto (che è anche un servizio pubblico), affrontando la pressione di un aumento enorme di situazioni, e dovendo spesso fare i conti con famiglie straziate dall’impossibilità di accompagnare come avrebbero voluto, nell’ultimo viaggio, i propri cari.
Sì, Dio ha voluto legarsi a noi con la sua parola e la sua presenza, per darci la fiducia che la nostra vita è nelle sue mani, che ci custodiscono per sempre, nella vita e nella morte. Ma ha voluto che solo nei legami reciproci, tra di noi, potessimo vivere il cammino della nostra umanità così bella, anche se ci sembra oggi così fragile. Chiediamo la grazia di custodire questi legami, di riconoscere quanto sono preziosi, di ricordarci che solo gli uni con gli altri e gli uni per gli altri possiamo vivere.

E chiediamo a Dio la grazia di farci sentire sempre vivi i legami con quelli che non sono più tra di noi, in questo mondo. Tra poco ascolteremo i loro nomi, i nomi dei circa duecento defunti della nostra città per i quali non è stato possibile celebrare il funerale, durante l’emergenza. Alcuni di questi nomi, senz’altro, rievocheranno per voi volti conosciuti e amati; per l’insieme di noi, forse, sarà un elenco di nomi in maggioranza sconosciuti. Ma sono tutti parte di noi stessi, proprio perché siano legati gli uni con gli altri. Permettetemi di dirlo, in conclusione, con le parole di un poeta inglese del Seicento, John Donne, che ho avuto occasione di citare nei giorni più duri dell’emergenza:

Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso
Ogni uomo è parte della terra
Una parte del tutto
Se una zolla è portata via dal mare
L’Europa risulta essere più piccola
Come se fosse un promontorio
Come se fosse una proprietà di amici tuoi
Come se fosse tua
La morte di ciascun uomo mi sminuisce
Perché faccio parte del genere umano
E perciò non chiederti
Per chi suoni la campana
Suona per te