Messa “nella cena del Signore” – 14 aprile 2022

Il vescovo Daniele ha presieduto la Messa “nella cena del Signore” nel giovedì santo 14 aprile 2022 nella Cattedrale di Crema. Riportiamo di seguito la sua omelia.

 

La celebrazione di questa Messa ‘nella cena del Signore’ è come un prologo a tutto il santo Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto. Ed è un prologo che, in prima battuta, si muove non nella linea delle cose da ‘capire’ o da meditare, ma in quella delle cose da fare.
Lo si vede già nella prima lettura, che riporta il rituale della Pasqua ebraica: e, proprio perché si tratta di un rito, bisogna partire anzitutto dalle cose che si devono mettere in atto – procurarsi per tempo l’agnello, sceglierlo secondo i criteri giusti, immolarlo in certo giorno e a un determinato orario, segnare con il sangue gli stipiti delle porte, mangiarlo secondo certi criteri…
C’è un insieme di prescrizioni, al termine delle quali viene data anche qualche spiegazione («è la Pasqua del Signore», ossia il suo “passaggio” che salva Israele, mentre colpisce l’Egitto peccatore…); fondamentalmente, però, qui si tratta di fare ciò che il rito prescrive, perché anche a distanza di secoli da quegli eventi pieni di meraviglia, si mantenga in Israele la memoria dei gesti di salvezza di Dio.
Di un simile “fare” parla anche Paolo, scrivendo ai Corinzi (cf. II lettura): anzi, ne parla Gesù stesso, perché, come riferisce l’antica tradizione relativa all’istituzione dell’Eucaristia, «il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11,23-24); e lo stesso comando, «fate questo in memoria di me», si ripete subito dopo anche a proposito del calice del vino (cf. v. 25).
E c’è ancora un terzo “fare”, sempre dalla bocca di Gesù, nel racconto della lavanda dei piedi: quando Gesù si alza da tavola, depone le vesti, si cinge di un asciugamano, si china ai piedi dei discepoli e incomincia a lavarli, uno per uno. E alla fine, riprese le vesti, dice: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,12-15).
Ma di questo “fare”, ancora prima, era stata questione con Pietro: perché, di fronte al suo rifiuto di lasciarsi lavare i piedi da Gesù – gesto da schiavo, che a Pietro sembra inconcepibile, fatto da Gesù –, questi gli aveva detto: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (13,7).
E proprio questa risposta può orientare la nostra riflessione e farci comprendere meglio il senso di tutta questa insistenza sul “fare”. Eredi, come siamo, di una cultura che per secoli ha privilegiato la conoscenza, anche nelle cose di fede tendiamo a pensare che il “sapere”, il “capire”, venga prima di tutto il resto. Ora, anche “conoscere” è importante. Se la lettura del vangelo si fosse prolungata di qualche versetto, arrivando fino alla fine del racconto, avremmo sentito quest’altra parola di Gesù: «Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (13,17), letteralmente «se le fate».
C’è da sapere qualcosa, effettivamente: ed è, in definitiva, l’amore di Dio che si rivela nel Figlio, e in particolare nel cammino che il Figlio compie nell’ora del suo passaggio «da questo mondo al Padre» (13,1), nell’ora della Pasqua. Questa è la cosa decisiva, che dobbiamo “sapere”. Ma come la possiamo sapere veramente? Guardando a ciò che Gesù fa, e accettando di fare quel che dice di fare.
Del resto, questa era stata l’indicazione di Maria, la madre di Gesù, fin dall’inizio, fin dal primo “segno” compiuto dal Figlio, quando, a Cana, era venuto a mancare il vino: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (2,5). Anche se non capite subito; anche se ciò che Gesù fa vi sembra strano (manca il vino… che ce ne facciamo, dell’acqua?); perfino se ciò che Gesù fa capovolge i criteri umani e lui, il Signore e Maestro, lava i piedi ai discepoli… Anche se vi lascia da fare un rito che certamente neppure i discepoli hanno capito, lì per lì («Prendete, mangiate… prendete, bevete…»).
Fate, facciamo quel che Gesù ci dice di fare. E si tratta, prima di tutto, di un lasciar fare. Lasciar fare a lui ciò egli vuol fare per noi: donarci la sua vita, diventare per noi cibo e bevanda, rendere possibile anche in noi l’amore “fino alla pienezza” (cf. 13,1)… E quindi lasciare che il Signore vada verso la croce, cammini verso quella fine drammatica…
Pietro gli aveva detto: no, Signore, questo non ti accadrà mai (cf. Mc 8,32 e par.)! E vedendolo piegato davanti a sé con l’acqua e l’asciugamano, gli dice: non mi laverai i piedi in eterno! Ma è come dire: non ti permetto di camminare verso la Pasqua, non ti permetto di andare verso la croce… Ed è chiaro, non ti permetto di fare queste cose, perché se no poi tocca farle anche a me, dovrò anch’io seguire quella via, piegarmi fino a terra nel servizio dei fratelli, fino al dono della mia vita…
Il Signore sa benissimo tutto questo. Ed è la ragione per la quale, con le parole «Vi ho dato un esempio… perché anche voi facciate come io ho fatto a voi», non sta dicendo semplicemente: ecco, questo è ciò che dovete fare, fatelo anche voi. Con quel «come io ho fatto», invece, sta dicendo: io vi rendo capaci di fare questo; sono io la radice a partire dalla quale possono nascere frutti di servizio, di riconciliazione, di vita buona, di amore vero… Sono io la vite che permette ai tralci di portare frutto, perché «senza di me non potete far nulla» (Gv 15,6) – come, del resto, di sé stesso aveva detto: il Figlio non può fare nulla, se non ciò che riceve dal Padre e vede in Lui (cf. 5,19.30).
E qui siamo rinviati al «fate questo in memoria di me», al dono dell’Eucaristia.
Perché «fare questo» – accogliere nel pane e nel vino, che la potenza dello Spirito trasforma nel Corpo donato e nel Sangue versato dal Signore per noi, il dono che il Figlio fa di se stesso al Padre per noi e per la nostra salvezza – fare questo è la condizione per poter fare anche quell’altro, per potersi piegare fino a terra nel servizio dei fratelli; e fare quest’altro (servire il fratello) è il solo modo perché fare quel rito «in memoria di Lui» non rimanga un gesto vuoto e inutile.
Facendo tutto questo saremo beati (cf. 13,17), perché la conoscenza dell’amore fino alla pienezza, manifestato nel Signore Gesù, non rimarrà in noi soltanto come una nozione, un’idea, ma diventerà stile di vita, testimonianza dell’amore di Dio non «a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).