Messa ‘in cena Domini’: Omelia del vescovo Daniele

Il vescovo Daniele ha presieduto la Messa ‘in cena Domini’ in Cattedrale, nel pomeriggio del Giovedì santo 9 aprile 2020, a porte chiuse. Qui di seguito viene riportata la sua omelia.

Tutti i gesti che ci sono stati descritti e raccontati nelle lettura bibliche ascoltate poco fa hanno come loro cornice la casa. «Ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa» (Es 12, 3), prescrive il rito della Pasqua ebraica; e col sangue di quell’agnello vengono segnate le case dove si consuma la cena pasquale, mentre Dio «passa», Dio «fa pasqua», per aprire al suo popolo la strada della libertà.
In una casa, debitamente preparata e ornata, si svolge l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, quella cena di cui parla Paolo nella prima lettera ai Corinzi, riportando l’antichissima tradizione riguardante l’istituzione dell’Eucaristia. E, sebbene non si parli di una cena, la scena descritta dal vangelo di Giovanni avviene evidentemente nel contesto di una casa: c’è in ogni modo il riferimento a una tavola, ci sono gli umili oggetti – l’asciugatoio, il catino – che appartengono alla vita di casa.
Sotto questo aspetto, non ci sorprende che la nostra celebrazione della Messa «nella cena del Signore», che è come una grande introduzione al Triduo pasquale, e ce ne mostra il senso, veda quest’anno la quasi totalità dei cristiani lontani dalle chiese, mentre cercano in vari modi di «fare Pasqua» restando nelle proprie case.
Poi sì, certo: già la «cena del Signore», descritta da Paolo nella prima lettera ai Corinzi, ci fa capire che intorno all’Eucaristia si costituisce non semplicemente una «casa» o una «famiglia» secondo i criteri umani. La cena del Signore è il luogo dove si radunano i credenti della «famiglia di Dio», che Gesù ha riunito e riunisce intorno a sé sulla base della fede; l’Eucaristia non si esaurisce in un pasto famigliare o di amici, perché è il sacramento della Pasqua del Signore, è partecipazione al suo Corpo dato per noi, al suo Sangue versato per noi, è comunione al Corpo del Signore perché si costituisca quel suo Corpo che è la Chiesa, è l’anticipazione del banchetto del regno…
Si capisce perché i cristiani hanno sentito anche il bisogno di uscire dalle proprie case, di ritrovarsi anche in luoghi appositi, come la nostra bella Cattedrale, per vivere tutto questo; si capisce, ancora una volta, quanto ci costa non poter vivere insieme, anche visibilmente e fisicamente insieme, questa Pasqua… E però, grazie anche alle letture ascoltate, ci è data la certezza che il Signore non abita solo qui, che la sua presenza ci è data anche nelle nostre case e che, se adesso, in questa emergenza, non possiamo partecipare in modo pieno del Pane spezzato e del Calice dell’alleanza, Egli però non diserta la nostra preghiera e ci invita a scoprire e ad accogliere altri modi della sua presenza tra noi.

Sorprende sempre il fatto che il quarto vangelo abbia tralasciato il racconto dell’Ultima Cena, per riferire invece, al suo posto, il gesto della lavanda dei piedi. Credo che l’evangelista Giovanni avesse la stessa preoccupazione degli altri evangelisti: aiutare, cioè, i suoi lettori a comprendere nella fede il senso della morte umanamente vergognosa di Gesù; a vederla come l’espressione suprema del dono di amore del Signore per i suoi. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine» (Gv 13, 1), cioè fino alla pienezza, donando totalmente se stesso, nel Corpo offerto e nel Sangue versato, nella vita e persino nella morte.
Forse, già all’epoca nella quale Giovanni scriveva il suo vangelo, poteva esserci il rischio di ridurre il comando del Signore riguardante l’Eucaristia («Fate questo in memoria di me»: cf. 1Cor 11, 24-25) a un puro rito.
L’evangelista sa che, per fare ciò che ha fatto il Signore – e cioè dare la vita per noi, amarci fino al dono pieno di sé – non basta il rito. Il rito è necessario: rifare anche noi ciò che ha fatto Gesù in quell’Ultima cena è determinante, anche perché ci ricorda che, prima di ogni nostro possibile «fare», viene ciò che ha fatto Lui, e che riceviamo appunto nell’Eucaristia. Da questo dono del Signore noi possiamo attingere anche la forza per essere capaci di un altro «fare», che consiste nel dono di noi stessi nell’amore.
E si deve arrivare anche a questo; c’è bisogno di un altro fare, oltre a quello di ripetere il rito dell’Eucaristia: «Se… io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13, 15): parole, queste, che anticipano ciò che ancor più chiaramente il Signore dirà poco dopo ai discepoli: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13, 34 s.).

In queste ultime settimane, a seguito dell’impossibilità di celebrare con la piena partecipazione dei fedeli le nostre liturgie, è successo un paradosso: le celebrazioni, le liturgie, sono diventate quanto mai visibili, trasmesse e rilanciate, come sono, dai tanti mezzi di comunicazione di cui disponiamo. È un dono, senz’altro, che ci permette comunque di mantenere tra noi quei legami che rischiano altrimenti di indebolirsi, a causa del cosiddetto «distanziamento sociale».
Ma non dimentichiamo che il Signore chiede a noi suoi discepoli un altro tipo di «visibilità»: quello dell’amore reciproco, del dono di noi stessi in una carità senza limiti. L’amore vicendevole, fondato sul dono che Cristo ha fatto di sé fino all’estremo della croce, è l’unico «segno» davvero importante. E può irradiarsi a partire da qualunque posto: non ha bisogno di luoghi speciali, né di tecnologie complicate.
Anche dalle nostre case può e deve ripartire il dono dell’amore, ricapitolato dal Signore Gesù nell’oscurità della croce, donato a noi nel mistero dell’Eucaristia, destinato a diffondersi nel mondo tramite l’umile e generoso servizio della nostra quotidiana carità.