Messa di Pasqua – Omelia del vescovo Daniele

Il vescovo Daniele ha presieduto la solenne Eucaristia del giorno di Pasqua in Cattedrale a Crema, il 4 aprile 2021. Riportiamo di seguito la sua omelia.

 

Corrono, Pietro e l’altro discepolo, verso la tomba di Gesù, che Maria di Magdala, al mattino di Pasqua, ha ritrovato vuota (cf. Gv 20,1-9). Corrono, ma uno dei due – il discepolo che Gesù amava – corre più veloce di Pietro, aiutato forse dalla più giovane età, aiutato certamente da quel legame profondo con Gesù che probabilmente gli fa sentire (come accade anche alla Maddalena) che la morte non può essere stata l’ultima parola, per Gesù.
E può darsi che Pietro sia rallentato non solo da qualche anno in più, rispetto all’altro discepolo, ma da un peso molto più grave: quello del rimorso, della vergogna. Perché la differenza più forte, tra Pietro e l’altro discepolo, non sta nell’età (in realtà non ne sappiamo niente), e forse neanche nel fatto che Gesù avesse una predilezione per quel discepolo di cui non si fa il nome – ma che viene identificato con l’autore stesso del Vangelo. Possiamo ben pensare che Gesù sapesse trattare nel modo giusto i suoi discepoli: nel modo giusto non vuol dire secondo una uguaglianza astratta, come se le persone fossero oggetti fatti in serie; vuol dire, invece, in un modo personale, in un modo adatto e giusto per ciascuno secondo la sua pecularità.
In ogni caso, la vera differenza tra i due discepoli è che uno, Pietro, aveva rinnegato il Signore ben tre volte, e anche se aveva tentato di seguirlo dopo il suo arresto, non era stato capace di andare fino in fondo: la paura era stata più forte di tutto, e aveva separato Pietro da Gesù proprio nell’ora drammatica della passione.
L’altro discepolo, invece, era stato il discepolo fedele, il discepolo rimasto ai piedi della croce, il discepolo che si era visto affidare da Gesù crocisso, subito prima della sua morte, la Madre, presente anche lei ai piedi della croce (cf. Gv 19,25-27); il discepolo che era stato testimone fino in fondo della passione, e che ci ha consegnato questa testimonianza nel suo vangelo (cf. 19,35-37).
Eppure, eccoli qui, i due discepoli, il rinnegatore e il discepolo fedele, il pauroso e il coraggioso, tutti e due in corsa, il mattino di Pasqua, insieme, verso la tomba vuota del Signore. E anche se il discepolo amato arriva per primo alla tomba, però si ferma prima di entrare, aspetta che arrivi anche Pietro, e lascia entrare per primo lui, per vedere che cosa è successo – anche se poi il vangelo ci lascia capire che, più che vedere che cosa è successo, si tratta di vedere con sguardo di fede; e di tutti e due dice che fino a quel momento «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risuscitare dai morti» (20,9).

Per la fede, la tomba vuota del Signore è un segno di che cosa è stata la sua morte: ripetutamente il vangelo di Giovanni ci dice che la morte del Signore è stata il suo «innalzamento», è stata la sua «gloria». La morte non ha ha potuto trattenere il Signore della vita, perché Dio l’ha accolto nella sua gloria e pienezza di vita, risuscitandolo da morte; e da allora la Chiesa continua a proclamare che il Signore Gesù è risorto, è il Vivente: e i segni della sua vittoria sulla morte vanno cercati non tanto intorno alla tomba, ma lì dove si compiono cammini di riconciliazione, di pace, di fraternità, di perdono e misericordia…
Perché questo mi sembra uno dei messaggi che la corsa dei due discepoli ci vuol richiamare: uno peccatore, l’altro giusto, uno rinnegatore, l’altro pio e fedele… ma tutti e due corrono insieme, e si aspettano, e si trovano riconciliati proprio in virtù della risurrezione.
Perché la Pasqua è il grande che Dio, il Padre, dice al suo Figlio: lui, la pietra scartata dai costruttori, è scelta dal Padre come pietra d’angolo, come fondazione dell’umanità nuova. Ma la Pasqua è anche il grande , il del perdono, che Dio dice al mondo. Presentandoci il suo Figlio risorto, il Padre non ci dice tanto: vedete quanto siete stati malvagi e meritevoli di punizione; ci dice piuttosto: «Chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome» (cf. At 10,43), come abbiamo sentito dalle parole di Pietro nella prima lettura.
E questo vale per tutti: buoni e cattivi, giusti e ingiusti, rinnegatori e discepoli fedeli… tutti si ritrovano uniti in questa festa di riconciliazione. Nella liturgia orientale, il canto principale della gioia pasquale dice: «È il giorno della Risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa, abbracciamoci gli uni gli altri, chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano, perdoniamo tutto per la risurrezione e gridiamo così: Cristo è risorto dai morti, con la morte calpestando la morte, e ai morti nei sepolcri donando la vita».
Questa è forse la sfida più grande della Pasqua. Certo, c’è una sfida per l’intelligenza, che senza la fede respinge l’ipotesi che la morte non sia la barriera invalicabile delle nostra esistenza in questo mondo; e su questo si può anche discutere a lungo… Ma probabilmente la sfida maggiore rimane quella che l’inno pasquale che ho citato prima esprime dicendo: «Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano, perdoniamo tutto per la risurrezione…».
È la sfida della fraternità, quella fraternità alla quale papa Francesco ci richiama continuamente, e da ultimo anche con l’enciclica Fratelli tutti, pubblicata nell’ottobre scorso; quella fraternità che anche il nostro padre Gigi Maccalli sempre ci ricorda, quando ci dà testimonianza della sua prigionia di due anni – un’esperienza che potrebbe portare a non crederci più, in questa fraternità, e che invece più che mai padre Gigi ha ribadito e rilanciato.
Tutto sommato, credere con il cuore, e anche ‘con la testa’, se vogliamo, che Gesù sia risorto, sia il Vivente, potrebbe essere anche facile. La vera sfida è tradurre questa fede in segni visibili, vivere come «risorti con Cristo, [cercando] le cose di lassù», come dice Paolo scrivendo ai Colossesi (Col. 3,1: seconda lettura). Solo che le «cose di lassù», come si capirebbe continuando a leggere il testo di Paolo, sono molto «di quaggiù», perché poi l’apostolo dice, ad esempio: «Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi…» (3,11-13).
Le «cose di lassù», la vita secondo il risorto, si chiamano appunto perdono, misericordia, fraternità, superamento di odi e divisioni; «cosa di lassù» è il correre sapendo fermarsi ad aspettare chi è più debole, non accettare che tribolazioni e fatiche creino divisioni e disparità sempre più grandi, che lasciano ai margini ed escludono chi non ce la fa…
Guardando a Pietro e al discepolo amato, al rinnegatore e al discepolo fedele che corrono insieme, che insieme giungono all’incontro con il risorto, che insieme sono abbracciati nella novità di Cristo vivente, chiediamo la grazia di cercare anche noi, sempre, quelle «cose di lassù» che trasformano il nostro modo di vivere quaggiù, e possono fare della nostra umanità, in cammino verso la fraternità piena, il segno visibile dell’amore di Dio, che nella Pasqua di Cristo ha riconciliato per sempre a sé il mondo.