Funerali di don Felice Agnelli

Nella chiesa parrocchiale di Chieve, dove era stato parroco dal 1986 al 2009, sono celebrati lunedì 21 marzo 2022 i funerali di don Felice Agnelli, morto il 19 marzo 2022 nella Casa sacerdotale della Fondazione Madre Cabrini di S. Angelo Lodigiano, dov’era ricoverato da alcuni anni a causa delle precarie condizioni di salute. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo Daniele.

 

Immaginiamo, andando indietro di forse duemilacinquecento anni, uno dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme che, per ragioni sconosciute – potevano essere anche l’età o la malattia, che gli impedivano di continuare a svolgere il suo ministero – si trova ormai lontano, in esilio; e che esprime la sua nostalgia per ciò che ha vissuto in anni più giovani, quando aveva più forze, quando poteva dedicare tutto sé stesso al servizio del culto di Dio.
Questa situazione, che – ripeto – possiamo solo tentare di immaginare, sta alla base del salmo che abbiamo pregato dopo la prima lettura. In realtà noi abbiamo pregato con solo alcuni versetti di questo salmo abbastanza lungo (si distende, in realtà sui due Salmi 42 e 43), quelli che esprimono il desiderio di Dio attraverso l’immagine della sete: sensazione primordiale che tutti, una volta o l’altra, abbiamo conosciuto, espressione tra le più radicali dei desideri profondi che abitano in noi e che, nella fede, riconosciamo compiuti solo dal dono di Dio.
Lui solo può rispondere pienamente al desiderio dell’uomo: come ha scritto quel grande cercatore di Dio che è stato sant’Agostino, usando un’altra immagine – quella dell’inquietudine e del riposo – “ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te”.
Per l’autore di questo salmo, questa sete, questa inquietudine, trovavano risposta proprio nel tempio, e nel servizio che egli vi svolgeva. Per questo rievoca quei giorni, e dice: «Questo io ricordo / e l’anima mia si strugge: / avanzavo tra la folla, / la precedevo fino alla casa di Dio, / fra canti di gioia e di lode / di una moltitudine in festa» (Sal 42,5).
Mi sono attardato un momento su questa situazione, e su questo salmo, per due motivi. Il primo è che al nostro don Felice i salmi piacevano molto. E mentre gli diamo, in questa celebrazione, il nostro saluto nella fede, raccomandandolo a Dio perché lo accolga nella sua casa, nella gioia e nella pace dei santi, ricordiamo con piacere questo suo interesse per i salmi, che aveva sviluppato in modo particolare negli anni trascorsi quale cappellano dell’Unità pastorale di Credera, Rubbiano e Rovereto.
E, seconda ragione, il salmo che abbiamo pregato in questa liturgia potrebbe anche restituirci in modo particolare la situazione di un prete come lui che, a causa dell’età e della malattia, ha dovuto interrompere il suo ministero, e accettare di andare in esilio, fuori diocesi, per trovare un ambiente adatto alle sue condizioni.
Dico tutto questo, come potete intuire, con il sorriso sulle labbra: perché mi preme di dire, invece, tutta la riconoscenza che dobbiamo alla Casa di Riposo Fondazione Madre Cabrini, e in particolare alla Casa per il Clero che vi si trova, per avere accolto don Felice e per aver fatto di tutto perché non gli pesasse la condizione di non poter più svolgere attivamente il proprio ministero di prete.
Ci tengo davvero a ringraziare il Direttore della Casa, il diacono Angelo Papa, che è qui con noi e svolge il suo ministero diaconale in questa liturgia, e tutto il personale della Casa; il mio e nostro ringraziamento si allarga al parroco di Sant’Angelo Lodigiano e Presidente della Fondazione Madre Cabrini, don Ermanno Livraghi, che ha accolto don Felice con vera sollecitudine e fraternità presbiterale; agli altri presbiteri accolti in quella Casa del Clero, e al confratello e amico vescovo di Lodi, mons. Maurizio Malvestiti.
Grazie, perché avete aiutato don Felice a non sentirsi in esilio, e anzi a trovare lì una casa professionale nelle cure, e accogliente e ospitale in spirito di vera fraternità presbiterale.
Immagino, certo, che don Felice abbia ripensato con nostalgia, come l’autore del salmo 42, agli anni del suo ministero di vicario parrocchiale prima a Capralba, poi a Bagnolo Cremasco e a Crema Nuova; e poi i trent’anni da parroco, sette a Scannabue e i restanti qui a Chieve; e poi il servizio come cappellano nell’Unità pastorale di Credera, Rovereto e Rubbiano, alla quale si è certamente affezionato, se ha chiesto di trovare lì l’ultima sua dimora, in attesa della risurrezione – e ci perdonerà se abbiamo celebrato invece qui a Chieve, nella comunità che più a lungo l’ha visto come parroco, questa liturgia esequiale.
Ma questa nostalgia, se c’è stata, sicuramente è stata addolcita dall’accoglienza che ha avuto a S. Angelo Lodigiano; e anche dalla consapevolezza di aver fatto il possibile per seminare il bene, secondo il vangelo, e che questa semina non è andata a vuoto, per grazia di Dio.
E don Felice ci lascia infatti il ricordo di un prete buono, amabile, particolarmente sollecito dei ragazzi e dei giovani, con i quali sapeva intrattenere buoni rapporti anche in tempi difficili, come quando arrivò a Crema Nuova, in pieno ’68, e seppe trovare un apprezzamento, conservato fino a oggi, anche in giovani le cui idee non sempre condivideva.

Il Salmo 42 si sviluppa intorno a questa domanda: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?”. L’orante è consapevole che non si vive di sola nostalgia, e che questo incontro pieno con Dio si trova non tanto nel passato, ma nel futuro.
Questo è anche il senso della liturgia con la quale la Chiesa accompagna i suoi fedeli, e anche i suoi preti defunti, all’ultimo viaggio. Lo possiamo esprimere con le parole che sempre quel salmo dice, e che ripete tre volte, come una sorta di convinto ritornello: “Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio” (Sal 42,6.12; 43,5).
Ormai don Felice può mettere da parte ogni nostalgia, ogni agitazione, ogni preoccupazione, e dare compimento alla speranza riposta in Dio per la vita e per la morte. Ormai può incontrare il perdono e la misericordia di cui è stato ministro nella sua vita di prete; ormai scopre che Dio davvero ha mandato per lui la sua luce e la sua verità, e queste lo stanno guidando alla santa montagna, alla vera dimora di Dio (cf. Sal 43,3), dove la sete di assoluto è pienamente soddisfatta, e dove il nostro cuore può finalmente riposare in pace, perché riposa nella pienezza dell’amore.