Funerale di don Santino Costi – Omelia

Pieranica, 17 settembre 2019

Avevo parlato con don Santino cinque giorni fa, in ospedale a Seriate. L’avevo trovato sereno e paziente, e dopo aver pregato un po’ insieme ci siamo salutati senza pensare – almeno per quanto mi riguarda, e benché fossi informato della precarietà delle sue condizioni – che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.
Meno di quarantott’ore dopo, invece, il corso della sua vita terrena giungeva al termine: in questo modo gli sono state risparmiate, probabilmente, altre tribolazioni in aggiunta a tutte quelle che hanno segnato la sua vita; ma la nostra diocesi e il nostro presbiterio si trovano così impoveriti, e il nostro dolore si unisce a quello dei famigliari, di quanti lo hanno avuto come pastore, di chi gli ha voluto bene.
Per vivere però da credenti, e nella speranza cristiana, questo momento nel quale diamo l’ultimo saluto a don Santino, ci viene in aiuto una parola delle prime generazioni cristiane, una lettera che la tradizione riconosce proveniente dall’apostolo Paolo, e dove si parla delle caratteristiche e delle qualità di chi è chiamato a esercitare un ministero nella Chiesa.
Si parla, in particolare, del vescovo e dei diaconi. Sappiamo che questi termini non ricalcano perfettamente il senso che le stesse parole hanno oggi. Non voglio certo scansare tutto ciò che viene detto qui del vescovo, ma è verosimile che ci si riferisca a una figura più simile a ciò che oggi sono i preti – i “preti comuni”, come è stato detto anche di don Santino – tanto più che altrove si parla al plurale di «episcopi e diaconi» per una sola comunità (quella di Filippi: cf. Fil 1, 1).
In ogni caso, stiamo celebrando una liturgia di suffragio, che ci permette di considerare come in uno sguardo di ricapitolazione il ministero presbiterale di don Santino – ministero le cui tappe sono state ricordate poco fa; mi sembra più significativo, dunque, guardare all’esito, al risultato del ministero, più che ai requisiti richiesti per esercitarlo.
È un esito che la lettera a Timoteo esprime con queste parole: «Coloro che avranno esercitato bene il loro ministero, si acquisteranno un grado degno di onore e un grande coraggio nella fede in Cristo Gesù» (1Tim 3, 3).
Si parla di «un grado degno di onore»: un grado onorifico che, però, è il corrispettivo dell’avere «esercitato bene» il ministero. In altre parole, questo grado onorifico non è che l’altro risvolto del servizio, del ministerium. Non è un grado onorifico secondo i criteri mondani, e il Signore l’ha detto ai suoi discepoli nel modo più chiaro possibile: chi vuol avere il primo posto, chi vuol essere onorato, deve farsi l’ultimo di tutti, il servo di tutti. Non c’è altra scala di onori, nella Chiesa, che questa.
Affidandogli don Santino, chiediamo al Signore di onorarlo secondo la misura del suo essersi fatto servo dei fratelli attraverso il ministero che ha vissuto; e gli chiediamo, anzi, di andare oltre questa misura, avvolgendo don Santino nello spazio della misericordia, al termine di una vita che è stata anche molto segnata da tribolazione e malattia.

Dice ancora la lettera a Timoteo che l’esito di un degno servizio è «un grande coraggio nella fede in Cristo Gesù». Questo «coraggio nella fede» lo possiamo capire alla luce di ciò che si legge, nella prima lettera a Timoteo, poco prima del testo che abbiamo ascoltato, là dove l’apostolo diceva: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù» (1Tm 1, 12-14).
Erano – ricordate – le parole della seconda lettura della Messa di domenica: quella lettura che veniva proclamata nelle nostre chiese proprio mentre don Santino chiudeva la sua esistenza terrena e si avviava all’incontro definitivo con il Signore. Anche se in quel momento non poteva sentirle, certamente don Santino poteva fare sue le parole dell’apostolo, e anche quelle che seguono: «Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità…» (1Tm 1, 15 s.).
Il «coraggio nella fede» di un ministro del Signore non consiste nel poter esibire davanti a Lui, nel giorno del giudizio, chissà quali risultati e successi; consiste, invece, nel riconoscere la misericordia che gli è stata usata, e nel rendere grazie per aver potuto servire i fratelli, trasmettendo loro la vita nuova nel Signore Gesù Cristo.

Quando leggo l’episodio del figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17), penso sempre che quel ragazzo, ridestandosi dal sonno della morte e mettendosi seduto, si è trovato davanti prima di tutto il volto di Gesù, che l’aveva richiamato alla vita. Così ora, nella fede, noi crediamo che don Santino, dopo aver chiuso gli occhi su questa vita terrena, li riapre per contemplare il volto del suo Signore, nel quale egli ha creduto e sperato; e noi preghiamo per lui, che era nato nel giorno della festa di tutti i Santi, perché sia ora introdotto nella comunione definitiva dei Santi in Paradiso, nella pace e nella gioia di Dio.