Solennità di San Pantaleone, patrono della diocesi

Il vescovo Daniele ha presieduto nella Cattedrale di Crema la solenne Eucaristia per la festa di S. Pantaleone, patrono della Diocesi e della Città di Crema. Nel corso della celebrazioni, i Sindaci hanno rinnovato la consueta offerta della cera in onore del Patrono. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

Il martire, come il nostro patrono san Pantaleone, che celebriamo oggi, è colui che ha dato la vita per Cristo, e l’ha data fino all’effusione del sangue: il martire risponde così – non per un suo qualche eroismo personale, ma per dono di Dio – a quella convinzione radicale, in virtù della quale il credente può dire: Gesù Cristo ha dato la sua vita per me (cf. 1Gv 3,16; Gal 2,20).
Ogni cristiano sa che questa dovrebbe essere la sua vocazione: rispondere a questo dono della vita, che Gesù ha fatto per noi, imparando a fare della propria vita un dono, anzitutto nella modalità decisiva della carità: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16).
Sempre più, del resto, ci rendiamo conto del nesso profondo che c’è tra il «dare la vita» nella carità e il «dare la vita» nell’effusione del sangue per Cristo: ce lo conferma, solo per citare qualche esempio recente, la beatificazione a Chiavenna, domenica scorsa, di sr. Maria Laura Mainetti, che ha portato fino al martirio la sua generosa carità, esercitata specialmente per i giovani; ma anche il nostro padre Alfredo Cremonesi, beatificato in questa Cattedrale meno di due anni fa, ha ricevuto la grazia del martirio proprio perché non voleva separarsi dai suoi cristiani, ai quali si era donato senza riserve.
«Dare la vita», del resto, è un’azione che si può declinare in molti e diversi modi: dà la vita la madre che mette al mondo un figlio o una figlia; danno la vita i genitori, che si occupano della crescita dei loro figli; dà la vita chi si mette con generosità al servizio del bene degli altri, come abbiamo visto fare in questo tempo di pandemia in modo particolare nei luoghi di cura (lo stesso san Pantaleone, come sappiamo, prima di dare la vita come martire, l’ha data come medico); dà la vita chi viene chiamato dal Signore a una consacrazione piena a servizio del suo popolo, appunto nella vita consacrata, nel ministero presbiterale (e certo, per me prima di tutto, è importante verificare se a questa chiamata corrisponde effettivamente il dono della vita)…
Ciò che accomuna questi e molti altri esempi che si potrebbero fare, è un atteggiamento, un modo di essere, che esprimiamo collegandoci a questo stesso comunissimo verbo «dare»: è l’atteggiamento della dedizione, o della dedicazione.

Sono stato indotto a fermarmi un po’ su questo atteggiamento, in queste ultime settimane, grazie anche alla pubblicazione di un libro uscito da poche settimane (e che ho potuto solo guardare sommariamente) e il cui titolo si potrebbe tradurre proprio così: Dedizione (cf. P. Davis, Dedicated. The Case for Commitment in an Age of Infinite Browsing, Avid Reader Press, New York 2021).
L’autore, Pete Davis, ha radici familiari ebraiche e cattoliche; in ogni caso, fa l’avvocato; il suo non è un libro di spiritualità, almeno non nel senso tradizionale di questo termine; è, piuttosto, un libro scritto per lottare contro quella che egli chiama la cultura, o l’epoca, dell’«infinita navigazione», dell’«eterno girovagare»: il termine, naturalmente, rinvia a ciò che facciamo spesso con i nostri computer; ma è molto più di questo, è un modo di pensare la vita, quel modo per cui bisogna tenere sempre aperte tutte le opzioni possibili, bisogna tener pronte sempre delle vie di uscita; o, detto in altre parole, quel modo per cui si finisce per non dedicarsi mai seriamente, in modo pieno, a niente e, forse, a nessuno – quel modo che si riassume nello «zapping», che può riempire un’intera serata davanti alla TV, senza che ci si decida mai a guardare sul serio qualcosa.
Sembra che ci sia questo paradosso: quanto più il nostro mondo, con la vastità e complessità di problemi che si porta dietro, avrebbe bisogno di gente dedicata, di donne e uomini capaci di una dedizione senza riserve, tanto più sembra diffondersi una cultura della provvisorietà, di una malintesa flessibilità e leggerezza, di legami e relazioni brevi e non troppo impegnative, in modo che ogni porta rimanga aperta, e nessuna scelta sia mai definitiva.
Naturalmente, è rischioso giudicare tutto questo in modo solo negativo, dimenticando che ci sono stati, e ci sono tuttora, tantissimi uomini e donne per i quali la possibilità, la libertà di scegliere tra opzioni diverse è un lusso irraggiungibile: ci sono uomini e donne tenuti prigionieri da condizioni di vita precarie, da scarsità di mezzi, da tradizioni e convenzioni limitanti; per non dire di quanti sono sottoposti a regimi oppressivi, o privati fisicamente della libertà di parlare, di muoversi, di fare progetti di vita…
Ma anche questo richiama la necessità di una dedizione, di «dare la vita», appunto; necessità di impegno, precisamente a favore della libertà di tutti, e in particolare dei più dimenticati, dei più fragili, di quelli che meno hanno possibilità di scelta; dedizione per la dignità di ogni persona, nella quale noi credenti riconosciamo l’immagine di Dio; dedizione per una società più equa, dedizione per condizioni di lavoro più dignitose, sicure, remunerate secondo giustizia; dedizione per un mondo più vivibile per noi e per le generazioni che verranno…
È senz’altro sbagliato pensare che questa dedizione sia semplicemente scomparsa dal nostro orizzonte. Al contrario: la memoria riconoscente di un martire significa anche rendere grazie a Dio per tutti quelli e quelle che nuotano controcorrente, rispetto alla cultura della perenne indecisione, dell’eterno sperimentare qua e là, che non permette mai di dedicarsi.
Ciascuno di noi, qui, può pensare agli esempi di dedizione piena, di impegno coraggioso e fedele, che ha conosciuto e conosce; ciascuno può pensare a donne e uomini che hanno fatto del dono della propria vita il criterio della propria esistenza, per lo più senza stare a farci sopra tanti ragionamenti, con la semplice immediatezza di chi capisce che la vita ha senso solo se la si può donare per qualcosa o qualcuno per cui vale la pena impegnarsi, correndo per questo anche dei rischi.
Metto tra questi esempi, senz’altro, anche quello di chi si dedica alla «cosa pubblica»: del resto, il libro al quale ho accennato menziona esplicitamente, nelle pagine introduttive, anche i sindaci: e dice che i sindaci migliori non sono quelli più intelligenti (per quanto, aggiungo io, questa qualità non sia certamente da buttar via!), ma quelli più fedelmente dediti alla loro città, al loro paese (cf. Davis, Dedicated, p. 17).

Per i cristiani, il volto definitivo di questa dedizione, che conferisce senso e pienezza alla vita, rimane quello di Gesù Cristo, di colui che è stato tutto dedito al Padre e, insieme, tutto dedito all’uomo e alla sua salvezza integrale.
E l’Eucaristia, come la Messa che stiamo celebrando, rimane per noi il sacramento di questa dedizione: nel pane, sacramento del Corpo donato, nel calice, sacramento del Sangue versato, noi scorgiamo sempre da capo il mistero di una dedizione senza confronti; che non è, però, qualcosa da ammirare soltanto, ma una sorgente alla quale sempre ritornare, perché anche noi possiamo fare della nostra vita un dono.
È a questa sorgente che i martiri si sono abbeverati, ed è perché lì hanno attinto alla dedizione incondizionata di Gesù Cristo, che non hanno avuto paura della morte. Prego perché il loro esempio ci sostenga, soprattutto quando siamo anche noi tentati di cercare comode vie di uscita, soluzioni più facili o leggere, rispetto alla dedicazione di noi stessi a ciò che vale e dura, e non teme il logorarsi del tempo o lo svanire delle mode.
Prego perché dalla memoria dei martiri, e dall’Eucaristia che ci rende partecipi della dedizione di amore del Re dei martiri, attingiamo il coraggio di dare la vita, e sperimentiamo la pienezza di gioia che questo dono porta con sé.

 

Ringraziamento

Ringrazio e saluto tutti voi che avete partecipato a questa celebrazione in onore del nostro santo Patrono e per chiedere la sua intercessione per la nostra Diocesi e per questa città. Ringrazio tutte le autorità civili e militari, i sacerdoti e i diaconi, i seminaristi, i missionari – in particolare i nostri pp. Walter e Gigi Maccalli – i consacrati e le consacrate, e i fedeli tutti, compresi naturalmente quanti hanno seguito la celebrazione attraverso la radio e la diretta streaming; e grazie anche a chi l’ha resa possibile.
Un grazie speciale alle Sindache e Sindaci che anche questa sera hanno voluto rinnovare l’offerta della cera in onore del Patrono; grazie per questo, grazie soprattutto per la vostra dedizione al bene delle comunità che amministrate: Dio vi ricompensi, insieme con tutti i vostri collaboratori e collaboratrici.
Desidero lasciarvi anche quest’anno un piccolo segno di condivisione. Si tratta del documento preparatorio – il cosiddetto «strumento di lavoro» – della prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, che si terrà a Taranto dal 21 al 24 ottobre prossimi, col titolo: Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #Tutto è connesso.
È un testo abbastanza breve, che vi consegno soprattutto come augurio, come espressione del desiderio che su questi temi così importanti – il lavoro, la tutela dell’ambiente, la costruzione di una rinnovata fraternità… – possiamo trovare occasioni di incontro, di confronto e di condivisione, che esprimano la nostra comune dedicazione al bene della nostra gente e del nostro territorio.
Ci sono tante cose buone, che possiamo fare insieme: ci conceda Dio la grazia di non sprecare le occasioni e le energie che ci sono donate.