Solennità del S. Cuore di Gesù – Omelia del vescovo

Nella parrocchia del S.Cuore a Crema Nuova, il vescovo Daniele ha presieduto l’Eucaristia nella solennità del S.Cuore, venerdì 11 giugno 2021. Nell’occasione sono stati ricordati gli anniversari particolari di ordinazione sacerdotale di don Giuseppe Degli Agosti (60 anni), don Pier Luigi Ferrari (50 anni), don Angelo Frassi, don Ezio Neotti, don Luciano Pisati, don Francesco Vailati (40 anni). Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

 

1. Questo del cuore di Gesù trafitto dalla lancia del soldato (cf. Gv 19, 31-37) non è l’unico segno dell’intimo nesso tra morte e vita, che l’evangelista ci presenta. Certo, questo è probabilmente il più forte, il più evidente, che si offre allo sguardo credente.
Perché lo sguardo al quale l’evangelista ci invita, anche attraverso la citazione di Zaccaria – «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (v. 37) – non è, evidentemente, uno sguardo solo fisico.
Così, serve a poco speculare – come pure è stato fatto – da un punto di vista medico, fisico o fisiologico, e chiedersi come sia possibile un fenomeno che la medicina difficilmente sa spiegare. E quando l’evangelista sottolinea la veridicità della sua testimonianza, non lo fa per garantirci una informazione solida ma, dice, «perché anche voi crediate» (v. 35), che è poi la finalità di tutto il vangelo: condurci alla fede in Gesù Cristo (cf. 20, 30-31), farci comprendere da credenti tutta la sua vicenda e il mistero della sua persona e della sua missione. Nella fede, appunto, possiamo tentare di comprendere il mistero di una morte che si rivela sorgente di vita.
«Sangue e acqua» scaturiscono dal cuore di Cristo. Una delle interpretazioni più tradizionali di questo segno lo ricollega ai sacramenti, in particolare ai due sacramenti fondamentali, il Battesimo e l’Eucaristia. Ma è da notare che l’evangelista parla prima del sangue, e poi dell’acqua, con un ordine che non è casuale.
È relativamente facile, alla luce di tutto il quarto vangelo, ricollegare il segno dell’acqua allo sgorgare di una vita piena, di una vita «eterna», come spesso si legge nel vangelo, che ha il suo fondamento nel dono dello Spirito.
Parlando del suo innalzamento sulla Croce, Gesù aveva annunciato nel segno dell’acqua l’effusione abbondante dello Spirito: «“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (7, 37-39).
Ma qui, sulla Croce, Gesù è stato glorificato, e ha effuso lo Spirito, proprio nel suo ultimo respiro (cf. Gv 19,30): morendo, ha donato la sorgente perenne della vita. E forse allora capiamo perché sangue e acqua sgorgano insieme, ma il sangue viene nominato per primo: perché questo sangue effuso indica la morte, ma una morte che è fonte di vita, che è come lo spaccarsi di una roccia, dalla quale sgorga per sempre lo «Spirito che dà la vita».
Del resto, come dicevo, ci sono altri passi del vangelo che ci portano nella stessa direzione: penso, ad esempio, all’immagine del seme buttato nella terra e lì destinato a morire, per portare un frutto abbondante (cf. 12, 24-25); e anche le parole con le quali Gesù, dalla croce, dona la madre al discepolo e il discepolo alla madre (cf. 19, 25-27), vanno nella stessa direzione: un’ora di morte si rivela come ora di vita, e la croce diventa il parto di un’umanità nuova.

2. Certo, tutto questo è possibile in virtù del modo in cui Gesù assume la morte. Non è semplicemente la morte in quanto tale a essere fonte di vita, e di vita piena: che sia un fatto puramente biologico, che la intendiamo come il dramma della nostra esistenza o, a maggior ragione, che la guardiamo come conseguenza del peccato, la morte in sé non porta da nessuna parte.
È la morte del Figlio di Dio, è la morte quale il Figlio la fa sua, come espressione piena della sua dedizione al Padre, e come compimento dell’amore per i suoi «fino alla pienezza» (cf. Gv 13, 1 ss.), che si rivela come fonte di vita.
Ma anche a noi, grazie allo Spirito di Cristo, è promessa e donata la possibilità di fare altrettanto (cf. 12, 26), la possibilità di accogliere la morte come l’ha accolta Gesù, perché anche in noi l’acqua dello Spirito diventi «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (4, 14).
Bisognerebbe seguire tutto il vangelo, soprattutto il quarto vangelo, e provare a ripercorrere tutti i punti nei quali, esplicitamente o implicitamente, gli evangelisti ci mettono davanti il confronto di Gesù con la morte, nell’intera sua vicenda, per cogliere qualcosa dei tanti modi nei quali egli appunto si misura con essa: e ne potremmo ricavare suggestioni e indicazioni per il nostro modo di vivere da credenti, e anche per il nostro ministero di presbiteri.
Prima di tutto, non dovremmo dimenticare che c’è anche una lotta di Gesù, un combattimento, contro le forze di morte che attraversano la vita dell’uomo. La morte che si annida nella menzogna, ad esempio; la morte che trapela da un’interpretazione soffocante della legge, che Dio aveva dato al suo popolo perché appunto vivesse; la morte che deriva dalla malattia, dall’infermità; la morte che si manifesta nella rottura delle relazioni, nella perdita degli affetti; la morte, certo, di un’esistenza preda del peccato, soggetta al potere del Maligno…
Contro tutte queste morti, Gesù ha lottato: risanando, facendo del bene, denunciando la menzogna e l’ipocrisia, sfidando la rigidità delle istituzioni religiose del suo tempo, mostrando misericordia per i peccatori, cacciando i demoni, guarendo i malati, ristabilendo gli affetti…

3. Certamente anche a noi, suoi discepoli, e a noi, suoi ministri, il Signore continua a chiedere un impegno attivo, forte, coraggioso e tenero insieme, per affermare la vita, il desiderio di vita di Dio per l’uomo, continuando a offrire anche quei doni di vita che sono messi nelle nostre mani: la Parola, i sacramenti, la comunione vicendevole, le mille forme della carità e della santità cristiana…
E anche a noi, suoi discepoli, e a noi suoi ministri, nella diversità delle nostre chiamate e dei doni dello Spirito, il Signore Gesù fa la grazia di assumere la morte come fonte di vita anche lì dove questo sembra meno evidente, anche lì dove la capacità di operare attivamente per la vita, la capacità di combattere per essa, di darci da fare, viene meno: e cioè quando ci sentiamo disorientati, quando sperimentiamo il fallimento, l’insuccesso, quando ci sembra di essere poco considerati, non abbastanza valorizzati, o addirittura poco amati; quando l’età o la malattia ci pesano addosso; quando abbiamo l’impressione che lo Spirito abbia smesso di soffiare, che in noi o magari nella Chiesa tutta la sorgente d’acqua viva si sia inaridita…
Volgere lo sguardo a colui che è stato trafitto significa anche questo, credo: scoprire nella fede la sorgente zampillante della vita proprio lì dove tutto sembra disseccato, dove umanamente tutto sembra perduto, e il cuore stesso della nostra vita di credenti, o del nostro ministero di preti, sembra essersi fermato, non battere più.
È proprio introducendo il racconto di passione che Giovanni può dire che Gesù amò i suoi «fino alla pienezza» (cf. 13, 1). Si tratta dunque, anche per noi, di tornare sempre lì, lì dove la vita perduta si rivela come vita donata, e la passione si manifesta come passione d’amore più forte della morte. È lì che a tutti noi, discepoli del Signore, e a noi suoi ministri, è dato di «conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza» (Ef 3, 19).
Ci sia data la grazia di perseverare saldi e lieti in questo amore, e così, in ogni condizione della nostra vita, continuare ad «annunciare alle genti le insondabili ricchezze di Cristo» (cf. 3, 8).