Conferimento del ministero di accolito a Enrico Gaffuri

Parrocchia di Ripalta Nuova, 4 dicembre 2019

Letture bibliche: Is 25,6-10a; Salmo 23(22); Mt 15,29-37

Nel vangelo di Matteo, come in quello di Marco, l’episodio di Gesù che sfama una grande folla è raccontato due volte: abbiamo ascoltato, questa sera, il secondo di questi due racconti. Sottolineo questo, perché c’è una stranezza, in questo racconto: davanti alla folla che sta con Gesù ormai da tre giorni, Gesù richiama ai discepoli la sfida – che sembra impossibile – di sfamare tutta questa folla. Mi sorprende che i discepoli sembrano aver dimenticato tutto di quell’altra occasione, avvenuta forse settimane, forse mesi (certo non anni o decenni) prima, quando Gesù aveva sfamato l’altra folla, di «circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (cf. Mt 14, 21); sembra che non si ricordino più delle dodici ceste piene di pezzi avanzati, che avevano portato via…
Com’è possibile questa dimenticanza di uno dei miracoli più strepitosi, e che ancora oggi ci sembra tra i più «impossibili», di Gesù? Non ho una risposta sicura, a questa domanda. Azzardo un’ipotesi, che può aiutarci a capire meglio anche ciò che stiamo celebrando questa sera, ossia l’istituzione di un nostro fratello, Enrico, nel ministero di accolito.
Tornerò tra un momento su questa parola, dopo aver sottolineato ancora un piccolo particolare del vangelo. Dice l’evangelista che Gesù, quando si accorge della necessità di dar da mangiare a tutta questa gente, «chiamò a sé i suoi discepoli» (15, 32). Mi sono chiesto: ma non erano già con lui? Perché ha dovuto chiamarli? Forse, chissà, i discepoli si erano lasciati entusiasmare da tutta questa gente che andava dietro a Gesù, forse erano andati a chiacchierare con qualcuno, forse avevano anche degli amici, dei conoscenti, in questa folla… Fatto sta che non erano con lui, sembra, e Gesù ha dovuto chiamarli a sé. Li ha richiamati a sé, potremmo dire, ripetendo la chiamata fatta in passato, quando aveva affidato loro la missione di annunciare e testimoniare il Regno di Dio (cf. Mt 10, 1-5); li ha richiamati a sé, perché se i discepoli si allontanano da lui, se si disperdono, dimenticano tutto, non sono più capaci di fare niente, e ogni volta si ritrovano incapaci di compiere la loro missione.

Credo che questa osservazione possa aiutarci a comprendere un po’ meglio il dono che questa sera riceve Enrico, ma che riguarda tutti noi. La parola «accolito», che è una parola greca, presente anche nei Vangeli, e trasportata direttamente in italiano, racchiude due significati principali: «seguire» e «servire». Un accolito è, prima di tutto, un seguace, un discepolo. Dei discepoli di Gesù si racconta appunto, nei vangeli, che essi «lo seguivano» (cf. Mt 4, 20.22; 9, 9; 10, 38): e questo verbo, «seguire», in greco si dice proprio con un verbo dal quale deriva anche la parola «accolito».
Questo «andare dietro» a Gesù è il punto determinante. Il resto viene dopo, e può darsi che non siamo neanche tanto bravi, a fare il resto – e quante volte i vangeli ci fanno vedere i limiti dei discepoli! Anche nel vangelo di questa sera: si sono allontanati da Gesù, si sono dispersi, e quando Gesù li richiama, non sanno più che pesci (e che pani!) pigliare… E sarà così anche in seguito, e in modo drammatico, al momento della passione di Gesù, quando tutti fuggiranno, tutti si disperderanno (cf. Mt 26, 56), tutti smetteranno di essere «accoliti», seguaci di colui che cammina verso la croce.
E ci vorrà del tempo, per arrivare a capire che proprio il cammino di Gesù verso la croce è ciò che li salva, è ciò che rende possibile per loro ridiventare discepoli. Compiuta la traversata pasquale, il Signore risorto li precederà in Galilea (cf. Mt 26, 32; 28, 7): sarà di nuovo colui che li trascina dietro a sé, colui che li rende ancora una volta suoi seguaci, suoi «accoliti».
Questi accoliti, così fragili e paurosi, il Signore li rimette sulla via del loro discepolato, perché quella croce, quella morte, non era il fallimento, non era la fine di tutto: capiranno che quella morte era il dono estremo di sé, era la scelta di amore del Figlio dell’uomo, venuto non per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine (cf. Mt 20, 28).
Capiranno, i discepoli, che anche il pane e i pesci donati in abbondanza alle folle erano preannuncio di un altro dono, quello dell’amore supremo, consegnato loro dal Signore nel pane e nel vino dell’ultima cena, corpo spezzato e sangue versato per la nostra salvezza (cf. Mt 26, 26-28). I discepoli, gli «accoliti» di Gesù, hanno capito che solo la partecipazione a questo dono di amore era ciò che permetteva loro di non scappare più; e hanno capito che comunicare a quel pane e a quel calice, entrare in comunione con il Corpo e il Sangue di Cristo (cf. 1Cor 10, 16), vuol dire entrare nella stessa dinamica, nello stesso movimento del Signore che ha dato Sé stesso per la vita e la salvezza dei fratelli.
Seguire il Signore è possibile, dunque, ma solo perché Lui stesso ci rende capaci di farlo, col dono del suo amore, comunicato a noi attraverso l’Eucaristia; ma allora capiamo che non si può seguire senza servire, e che essere «accolito» vuol dire, al tempo stesso, seguire il Signore e servire, nel suo nome, i fratelli.

Per chi è in cammino verso il ministero del prete, l’accolitato è la tappa che avvicina all’Eucaristia, che fa scoprire nell’Eucaristia la radice più profonda di un’adesione senza riserve al Signore e di un servizio di amore plasmato a immagine del suo. Ci dice – e lo dice in particolare a te, caro Enrico – che non si potrà essere bravi preti, se non si è bravi accoliti: bravi, intendo dire, nel trovare sempre nell’Eucaristia la radice dell’adesione profonda, convinta, gioiosa e generosa al Signore; e bravi nello scoprire, nel servizio all’altare del Signore, la fonte di un servizio la cui misura ultima è, né più né meno, la vita totalmente donata – come lo è stata quella di Gesù. Bravi, infine, nel ricordarsi che se ci si allontana dal Signore ci si disperde e ci si divide; mentre avvicinarsi a lui, accogliere il dono che egli fa di Sé nell’Eucaristia e mettersi al suo servizio, significa ritrovare la propria fedeltà e diventare servitori della comunione per tutto il popolo di Dio.
Dio ti conceda tutto questo in abbondanza, mentre con la nostra preghiera ti accompagniamo oggi, e in tutti i giorni del tuo servizio generoso e gioioso.