Centenario della fine della I Guerra mondiale – Omelia

Omelia del Vescovo Daniele, Chiesa di S. Bernardino di città, 4 novembre 2018

A costo di cadere in una semplificazione che può sembrare troppo drastica, io credo che oggi non possiamo fare a meno di confrontare le parole che abbiamo appena ascoltato dal Vangelo (cf. Mc 12, 28-34) con il dramma che si concludeva, per noi in Italia, esattamente un secolo fa: il dramma di quella che è stata chiamata la «grande» guerra ma che, quel che è peggio, da molti e da molte parti allora fu qualificata persino come una guerra «santa».
Non possiamo fare a meno di confrontare il comandamento più grande di tutti, nelle sue due inseparabili facce – l’amore a Dio e l’amore al prossimo –, col fatto che per quattro anni nazioni e popoli che si proclamavano cristiani, e che spesso pretendevano di agire in nome di Dio e con la sua protezione, si sono affrontati con violenza sanguinaria, lasciando sul terreno milioni di morti e una serie infinita di distruzioni materiali e morali.
È fin troppo chiaro che noi, oggi, a distanza di un secolo, non possiamo pretendere di entrare nella coscienza di chi visse quegli anni terribili; di chi combatté sui fronti contrapposti; di chi governava i popoli dell’Europa; di chi benedisse le armi e gli eserciti (anche qui, su tutti i fronti contrapposti); di chi – anche fra i preti, i vescovi, i cardinali – si chiuse senza appello, e a volte anche contestò esplicitamente, le ripetute e pressanti richieste di pace del papa di allora, Benedetto XV: il papa che condannò «l’immane carneficina», che qualificò la guerra come «inutile strage», che parlò più volte di un «suicidio dell’Europa», che propose inutilmente il progressivo disarmo, che senza risultato chiese che la forza del diritto si sostituisse a quella delle armi…

Non possiamo, dicevo, pretendere di entrare nella coscienza di tutti questi, e meno ancora di giudicarla: forse qualcuno ha persino pensato in coscienza di adempiere, combattendo, il precetto dell’amore. Non intendo giudicare, ripeto: e sono anzi convinto che vi furono, nel cuore stesso della tragedia, gesti e comportamenti di vera carità, persino eroica, perché Dio è capace di far fiorire la carità persino sui campi di battaglia e nelle trincee.
E tuttavia le parole di Gesù che abbiamo ascoltato – e che non sono state scelte apposta per questa Messa: le letture bibliche sono quelle previste normalmente dalla liturgia domenicale – chiedono a me, a tutti noi, di guardare in noi stessi, e di chiederci come noi, che ci diciamo discepoli di Gesù Cristo, intendiamo fare nostro il precetto dell’amore.

La memoria di ciò che accadde un secolo fa ha senso, se ci aiuta a costruire una coscienza nuova. Lo ha ricordato in questi giorni, in una sua lettera pastorale, il vescovo di Bolzano-Bressanone, mons. Ivo Muser. Mi permetto di riprendere alcune sue parole:

“Noi ricordiamo con riflessione e turbamento quel periodo della nostra storia per costruire ponti di pace. È prioritario, alla luce della catastrofe e delle conseguenze di ampia portata che ha causato, rinnovare l’apertura alla volontà di pace e imparare una volta per tutte che il linguaggio della guerra non può in nessun modo rappresentare per noi un’alternativa o un’opzione. Il ricordo comune degli orrori e delle crudeltà del conflitto vuole collocare questo monito in profondità nei nostri cuori: la pace va voluta e cercata, la pace ha bisogno di essere curata e accompagnata in modo vigile, affinché non venga sacrificata per presunti interessi superiori. La memoria e la riflessione servono a mantenere vivo il ricordo: per amore della pace, per amore della dignità umana, per amore del nostro futuro comune” (I. Muser, Beati gli operatori di pace, 1 nov. 2018).

E ancora, dalla lettera del vescovo di Bolzano-Bressanone vorrei prendere una parola di avvertimento sulle radici della guerra di allora, perché sono radici che ritroviamo ancora presenti oggi, e che devono renderci quanto mai vigilanti; radici come
“il nazionalismo, diventato un surrogato della religione; l’odio, il disprezzo e l’arroganza verso altri popoli; la pretesa ingiustificata di potere assoluto su vita e morte, ma anche la brama di ricchezza e di conquista. Allora come oggi la pace viene minacciata da massicci deficit di giustizia e violazioni dei diritti umani. Particolarmente pericolose sono anche la glorificazione e la giustificazione della violenza: un chiaro e forte no deve attraversare tutta la nostra società, quando gruppi di persone sono sospettati in modo generico o quando si invita a ripulire la nostra terra da determinate categorie di persone” (ivi).

E permettetemi di insistere ancora su una cosa. I governi, gli eserciti, le nazioni che vollero quella guerra si dicevano cristiani. Lo ripeto, non intendo giudicare la coscienza delle persone di allora. Intendo chiedere a me stesso, e a voi, se volete: basta qualificarsi come cristiani, portare questa etichetta, addirittura esaltare la «civiltà cristiana» e volerla difendere (lo si volle fare anche un secolo fa), per vivere e praticare il Vangelo di Gesù Cristo?
A ciascuno di trovare la risposta, non dimenticando la conclusione paradossale del Vangelo di oggi: dove lo scriba si mostra del tutto d’accordo con Gesù, e ne ripete più o meno alla lettera le parole, per sentirsi dire: «Non sei lontano dal Regno di Dio». «Non sei lontano»: ma non ci sei ancora dentro del tutto. Perché non bastano le parole, non basta sapere il catechismo e conoscere i comandamenti a memoria, non basta l’etichetta di «cristiano», per aver parte con Gesù Cristo.

Ce lo ha ricordato la parola di Mosè, nella prima lettura: «Ascolta, o Israele [i precetti di Dio], e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto» (Dt 6, 3).
«Bada di metterli in pratica», i comandamenti di Dio. Anche per la pace, non bastano certo le parole: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5, 9), ha detto Gesù: beati quelli che costruiscono la pace, non quelli che se ne riempiono la bocca. E la pace è faticosa, la pace impegna: al punto che cento anni fa, nonostante i ripetuti appelli del papa di allora, i grandi della terra preferirono la via facile di una guerra distruttiva alla via difficile, impegnativa, della ricerca di una pace fondata sulla giustizia e la verità. Chiediamo al Signore di imparare quella lezione, e di non aver paura di percorrere la via faticosa, ma salvifica, dell’amore e della pace.
E chiediamo a Dio che anche la vita e la morte delle vittime di quell’«orribile lotta fratricida» (l’espressione è di Benedetto XV), in particolare delle migliaia di giovani mandati al massacro, e che vogliamo affidare anche oggi alla sua misericordia, siano fondamento – in particolare per l’Italia e per l’Europa – di un mondo più giusto, più vero, più fraterno e accogliente.