Celebrazione di S. Cecilia per le Corali cremasche – Omelia

Cattedrale di Crema, 20 novembre 2019

Letture bibliche: Os 2, 16b.17b.21-22; Mt 25, 1-13

A mezzanotte si leva un grido e, mentre tutte le vergini, le ragazze che dovevano comporre il corteo nuziale per lo sposo, si erano assopite e dormivano (cf. Mt 25, 5), viene annunciato l’arrivo dello sposo: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!» (Mt 25, 6).
Vorrei accostare questa mezzanotte, e questo grido, a un’altra mezzanotte, e a un’altra voce, raccontate negli Atti degli apostoli, e che costituisce una delle testimonianze più antiche, e per me più belle, del canto dei cristiani. 
Si tratta dell’apostolo Paolo e del suo collaboratore Sila (o Silvano), nel corso del secondo viaggio missionario, durante la permanenza dei due apostoli a Filippi. Gettati in prigione – dopo aver ricevuto una congrua dose di bastonate – con l’accusa di fomentare il disordine nella città e di introdurvi usi illeciti per i Romani (cf. At 16, 20 s.), i due apostoli, si racconta, «verso mezzanotte… in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i prigionieri stavano ad ascoltarli» (v. 25).
È molto suggestiva questa scena di una preghiera che si fa canto, nel cuore della notte, e di una notte che non è solo un dato cronologico: umanamente parlando, quella doveva essere anche una notte dello spirito, una notte di tribolazione, nella quale verrebbe forse più da lamentarsi impauriti, che da cantare inni… O, più semplicemente, vinti dalla stanchezza, ma senza timori, senza angosce particolari, i due apostoli avrebbero potuto dormire il sonno del giusto: e, come per le dieci ragazze della parabola (che dormono tutte, sia quelle previdenti e sagge, sia le altre), nulla dall’esterno avrebbe potuto distinguerli dagli altri prigionieri: discepoli di Cristo e apostoli da una parte, delinquenti carcerati dall’altra, tutti accomunati nella stessa notte, nello stesso sonno.
Ma arriva poi il momento in cui le cose si distinguono: arriva il momento – ed è appunto questo il centro di attenzione della parabola – in cui si capisce chi ha avuto la saggezza di portare con sé l’olio di riserva, arriva il momento in cui il sonno può interrompersi non per riportare alla mente o al cuore pensieri cupi di disperazione, ma per far aprire le labbra e la bocca nel canto.
Questo momento arriva, arriverà – non arriverà solo alla fine, in realtà; la parabola ci parla certo della fine ultima, ma questo momento, le occasioni di risveglio, possono arrivare in tanti modi e in tante occasioni della nostra vita; anche per Paolo e Sila questo momento arriva per annunciare la loro imminente liberazione e la ripresa del loro servizio apostolico.
In ogni modo, rimane la questione: come prepariamo questo «momento di verità»? Che cos’è quell’olio che anche noi dovremmo portare sempre con noi? Credo che a questa domanda si potrebbero dare risposte diverse. In questo nostro contesto, mentre celebriamo – in anticipo di un paio di giorni sulla data liturgica – la memoria di una vergine martire, santa Cecilia, indicata nella tradizione della Chiesa come patrona della musica e dei musicisti; e mentre abbiamo ancora nel cuore i sentimenti di riconoscenza per la beatificazione di un altro martire, padre Alfredo Cremonesi, figlio della nostra terra e proclamato beato proprio in questa cattedrale, vorrei provare a rispondere in questo modo: quest’olio è la nostra capacità di donare e donarci; e di questa capacità può essere segno e strumento anche il nostro canto.
Provo a dirlo così: se impari a donare tutto di te; se impari, nella tua vita, a non trattenere niente, a fare della tua vita un dono, nulla potrà sorprenderti, impaurirti, sembrarti qualcosa di esigente e impegnativo. Lo stesso grido della mezzanotte, «ecco lo sposo, andategli incontro!», può risuonare in modi diversi; può risuonare come un nuovo impegno, un nuovo peso, una nuova fatica… Ecco, non bastano più le fiaccole, non basta il tempo che già abbiamo dato, ecco ancora l’attesa, ecco ancora che ci occorre dell’olio e non sappiamo dove andarlo a trovare…
Oppure, può risuonare come il compimento atteso: tutto è già stato donato, tutto è già stato speso, e quindi non ci viene sottratto più niente, appunto perché già tutto è diventato dono: lo Sposo che arriva non viene a chiederci qualcosa in più, la sua venuta è la festa di questo dono ormai avvenuto in pienezza. L’olio di riserva è, mi sembra, questa capacità di dono pieno, che libera la nostra vita da ogni preoccupazione ansiosa ed egoistica di sé, e la rende aperta in pienezza a Dio e agli altri.

E il canto, il canto cristiano in particolare, può essere un bell’esercizio, per andare avanti in questa capacità di dono. Ho pensato di suggerirlo con le parole di un altro martire, fr. Christophe Lebreton, uno dei monaci trappisti di Tibhirine, in Algeria, rapiti dai fondamentalisti islamici e poi uccisi nella primavera del 1996; sono stati proclamati beati l’8 dicembre scorso, insieme con altri dodici cristiani, uomini e donne, tutti uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, martiri della loro volontà di rimanere accanto al popolo algerino, quasi totalmente musulmano, esposto in quegli anni a una feroce guerra civile che ha causato decine di migliaia di vittime. Fr. Christophe era anche il cantore della comunità trappista di Tibhirine, e parla nel suo Diario anche di questa sua esperienza, commentando l’espressione «Tirar fuori la voce», che commenta così:

«“Tirar fuori la voce” non vuol dire brandirla come un’arma di vittoria e fare piazza pulita tutt’intorno. Ma io non devo risparmiare o trattenere la voce: la si trova perdendola. “Tirar fuori la voce” è un’illusione se Tu, o Signore, non la accogli. La mia voce, in fondo, è un solo grido: vieni, presto!»

Come per la vita, secondo la parola del Signore, così anche per la voce: la si trova perdendola o, possiamo anche dire, la si trova donandola. E «dare la voce», darla nel canto e nella lode al Signore e nel servizio dei fratelli nella celebrazione liturgica, può essere un aspetto, un momento, del «dare la vita», sicuri che il Signore la raccoglierà, e nulla lascerà cadere. Anche il canto, insomma, può e deve diventare esperienza di dono, parte di quel dono totale di noi stessi, che è il compito di tutta la nostra vita. Ce lo insegna l’esperienza dei martiri – che a volte, ci dicono le cronache antiche e recenti, andavano al martirio cantando; e ci spinge a non aver paura di questo dono, della voce e della vita, perché questa è la sola via perché siamo pronti, quando il Signore ci chiama, a entrare con lui nella festa di nozze.