29ª Giornata Mondiale del Malato – Omelia del vescovo

Nel pomeriggio dell’11 febbraio 2021, in occasione della 29ª Giornata mondiale del malato, il vescovo Daniele ha presieduto la S. Messa nella Chiesa dell’Ospedale maggiore di Crema. Riportiamo di seguito la sua omelia.

Il tema della XXIX Giornata mondiale del malato, che celebriamo oggi, nel ricordo dell’apparizione della Vergine Maria a Lourdes, ha questo titolo impegnativo: «Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8). La relazione interpersonale di fiducia quale fondamento della cura olistica del malato» (anche se il Messaggio che papa Francesco ha predisposto per questa giornata ha un titolo, nella seconda parte, un po’ più semplice: La relazione di fiducia alla base della cura dei malati).
Il senso fondamentale di questo tema lo vorrei ricavare proprio da alcune parole del Messaggio del Papa, il quale ricorda che per una buona terapia «è decisivo l’aspetto relazionale, mediante il quale si può avere un approccio olistico [traduciamo: un approccio che tenga conto di tutte le dimensioni della persona] alla persona malata». E continua ancora il Papa: «Si tratta dunque di stabilire un patto tra i bisognosi di cura e coloro che li curano; un patto fondato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva, mettere al centro la dignità del malato, tutelare la professionalità degli operatori sanitari e intrattenere un buon rapporto con le famiglie dei pazienti.»

Ora, vorrei brevemente confrontare questo messaggio con le letture bibliche che abbiamo ascoltato, perché credo che ci aiutino a comprenderlo meglio e, soprattutto, a metterlo in pratica. Le letture ci parlano di qualcosa che è già «dato», che non dobbiamo inventarci noi, perché fa parte di ciò che da sempre Dio ha voluto per l’uomo: un dono, dunque; e però, al tempo stesso, ci mettono davanti un impegno, perché il dono di Dio si possa realizzare tra di noi – il che non è sempre scontato.
Il dono è quello della comunione che ci lega gli uni con gli altri, e anche con tutto il creato. L’abbiamo sentito proprio all’inizio della prima lettura (Gen 2,18-25): «Non è bene che l’uomo sia solo!» (v. 18): è la constatazione che Dio fa sin dall’inizio della creazione. Non siamo fatti per vivere isolati, separati gli uni dagli altri. Siamo fatti per la comunione, per vivere nel legame vicendevole: e anzitutto – è bene riconoscerlo – nel legame che abbiamo con le altre creature, all’interno di quel «giardino» (cf. Gen 2,15) che Dio ha voluto che fosse il mondo per le sue creature (anche se poi noi rischiamo di trasformarlo in un deserto…).
Però questo bisogno di comunione trova una risposta piena soltanto quando l’essere umano può entrare in relazione con qualcuno che «gli corrisponda» (cf. vv. 18 e 20). Il legame, la reciprocità tra uomo e donna, è la forma più basilare, potremmo dire, del legame che ci unisce, tutti noi esseri umani, creati a immagine di Dio (cf. 1,27) e creati appunto per la comunione vicendevole: creati, potremmo dire riprendendo le parole di Gesù da cui è tratto il titolo di questa Giornata, per essere «tutti fratelli», perché veniamo tutti dall’unico Creatore e Padre, e tutti siamo fatti per superare la solitudine e vivere in comunione.

Questo, dunque, è il dono: ma, come dicevo, esso è anche un compito. La fraternità, la comunione, è qualcosa che Dio affida alla responsabilità dell’uomo, perché anche noi possiamo «metterci del nostro», per realizzare i doni di Dio, perché Dio ci coinvolge attivamente, non vuole che restiamo muti spettatori di quel che fa lui. E questo compito diventa tanto più impegnativo, quanto più noi ci mettiamo dentro degli ostacoli. Fin dall’inizio la Bibbia ci dice che il sogno di fraternità, che Dio vuole per l’uomo, è a rischio: il primo peccato, dopo che Adamo ed Eva saranno espulsi dal paradiso terrestre, è l’atto di Caino che uccide il fratello Abele: la fraternità è la prima cosa che si disgrega, quando ci si allontana da Dio!
E la fraternità si disgrega in tanti modi, creando soprattutto delle barriere, dei muri di divisione, per le ragioni più diverse. Anche per ragioni religiose: e così accade che nel popolo di Israele, il popolo a cui appartiene anche Gesù, si tiri un netto muro di divisione tra chi fa parte di questo popolo (e questi sono i «figli») e chi, invece, ne è escluso: e questi sono le «genti» (quando si vuol usare un appellativo benevolo), oppure sono i «cani»: come accadeva che venissero chiamati appunto i non ebrei… come la donna cananea, chiaramente pagana (il vangelo insiste a metterlo in evidenza), che domanda a Gesù la guarigione, la liberazione della propria figlia (cf. Mc 7,24-30).
E Gesù? Sembra allora che anche lui stia dentro a queste divisioni, quando le risponde: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (v. 27). Non è proprio così duro, non parla di «cani», ma di «cagnolini», però il risultato sembra lo stesso: questa donna non avrebbe ‘diritto’ a un miracolo di Gesù, perché non appartiene al popolo dei «figli»…
Il racconto del Vangelo è il racconto dell’impegno che sia la donna, sia Gesù, mettono in atto per superare i muri di divisione, perché il bisogno della donna e la missione che Gesù ha ricevuto per il popolo di Israele si possano incontrare. E proprio l’impegno di entrambi – la fede ostinata della donna, e il riconoscimento di questa fede da parte di Gesù – operano il miracolo: che è la guarigione della figlia ma anche, al tempo stesso, l’incontro fra due che non sono più stranieri l’una nei confronti dell’altro.

E così torniamo alla giornata di oggi, e al messaggio del Papa che ci chiede di praticare la fraternità come via per la cura completa della persona. Sì, l’incontro tra le persone, il cammino verso la fraternità, è importante per la cura, come lo sono la competenza e le capacità dei medici, le risorse della scienza e della tecnica, e tutte le altre cose che sappiamo mettere in campo per far fronte alla malattia.
Quando Gesù guarisce i malati, nei vangeli, si vede bene che egli cerca anche l’incontro con le persone: non si limita a curare malattie, ma costruisce fraternità e relazioni. Lo dico ancora, per concludere, con parole prese dal Messaggio del Papa: «… le guarigioni operate da Gesù non sono mai gesti magici, ma sempre il frutto di un incontro, di una relazione interpersonale, in cui al dono di Dio, offerto da Gesù, corrisponde la fede di chi lo accoglie, come riassume la parola che Gesù spesso ripete: “La tua fede ti ha salvato”.
Cari fratelli e sorelle, il comandamento dell’amore, che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, trova una concreta realizzazione anche nella relazione con i malati. Una società è tanto più umana quanto più sa prendersi cura dei suoi membri fragili e sofferenti, e sa farlo con efficienza animata da amore fraterno. Tendiamo a questa meta e facciamo in modo che nessuno resti da solo [appunto: “Non è bene che l’uomo sia solo”!], che nessuno si senta escluso e abbandonato».

E ci aiuti in tutto questo la Vergine Maria, che i malati sentono in modo particolare come loro Madre e protettrice.